Arabia Saudita – Un regno violento su cui tutti tacciono

Oggi i riflettori di tutto il mondo sono puntati sull’uccisione di Jamal Khashoggi, avvenuta all’interno dell’Ambasciata dell’Arabia Saudita ad Istanbul.
Al di là dei dettagli relativi all’uccisione, degni di un film giallo, resta comunque la cruda realtà di un omicidio che si inscrive appieno nella gestione del potere del nuovo sovrano saudita, Mohammed Bin Salman.

Khashoggi, legato in passato alla Casa Reale, a suo tempo uno dei pochi giornalisti che avevano intervistato Osama Bin Laden, al giorno d’oggi era autoesiliato negli Stati Uniti. Era columnist del Washington Post e critico verso l’attuale sovrano saudita. Un uomo sicuramente a conoscenza dei segreti e dei lati più oscuri della storia del Regno Saudita degli ultimi trent’anni. Come ha scritto John R. Bradley sullo Spectator,:“La sua è la storia di un uomo inestricabilmente inserito nelle dinamiche di una famiglia reale che «funziona come la Mafia». Una volta che sei entrato a farne parte, è per la vita, e se provi ad uscirne, diventi spazzatura”.

A seconda dei commentatori, Khashoggi viene definito come giornalista critico oppure uomo di potere legato attualmente ai Fratelli Mussulmani, considerati nemici dell’Arabia Saudita e notoriamente legati alla Turchia .

La storia di Khashoggi va inserita nello scontro politico per l’egemonia dell’intera regione e non solo in atto all’interno della vasta area dell’Islam politico, nella sua accezione più ampia. Un conflitto che ha come protagonisti stati come l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Iran, ognuno con i suoi alleati regionali ed internazionali e con i suo legami religiosi.
Uno scontro che si combatte con guerre per procura, come quella in Siria o in Yemen, con tutti i devastanti effetti negativi che deve affrontare, come sempre, la popolazione civile. Basta pensare che la vita oggi in Yemen è impossibile: acqua corrente ed elettricità scarseggiano, il cibo non si trova e il prezzo della farina è quadruplicato. La guerra iniziata tra il 25 e il 26 marzo del 2015, è stata definita dalle Nazioni Unite «uno dei peggiori disastri umanitari del mondo».

In questo scenario quello che è successo a Khashoggi dovrebbe servire a accendere definitivamente i riflettori su cosa succede veramente in Arabia Saudita in termini di quelle che vengono definite “violazioni dei diritti umani”.

Questo dovrebbe valere per tutte le vittime della repressione saudita.
Ma pare che nei rapporti con l’Arabia Saudita più che i diritti internazionali violati valga il business.
In cima alla lista degli affari la vendita di armi. Stiamo parlando di un’attività che riguarda anche l’Italia: decine di milioni di euro in bombe vendute ai sauditi, che le usano in Yemen.

Non va poi dimenticato l’importanza del giovane sovrano saudita per il business finanziario globale.
Il suo “Piano Vision 2030” che consiste nella creazione di un Fondo sovrano saudita per agire nei vari fondi d’investimento internazionali per sganciarsi definitivamente dai soli profitti petroliferi, spazia dall’innovazione tecnologica fino ad arrivare anche al settore spaziale. Un gettito di dollari da cui nessuno vuole essere escluso.

In Arabia gli ideali, i sogni e anche le passioni hanno un prezzo molto alto: i più fortunati li pagano con la detenzione pluriennale mentre i più sfortunati anche con la vita.
Di certo non si rispetta l’articolo 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che è volto a proibire non solo la tortura, ma anche ogni trattamento crudele, inumano e degradante, visto che frustate, lapidazioni e varie forme di violenza sono alla base della gestione quotidiana della “giustizia”.  
La legislazione sulla sicurezza nazionale è così generica da far rientrare tra gli atti di terrorismo anche forme di opposizione pacifica, come quelle di blogger e attivisti per i diritti umani incarcerati per aver espresso le loro opinioni.
Khashoggi, dunque non è l’eccezione ma la regola.

Chi si oppone realmente al regime saudita è destinato a fare sempre una brutta fine. Il caso di Raif Badawi come di altri blogger ed attivisti incarcerati ne è un esempio lampante.

Raif Badawi è un giovane blogger saudita di 31 anni, animatore del sito internet Liberal Saudi Network, un forum pensato per discutere di vari argomenti sociali, tra cui anche la religione, attualmente si trova in carcere, perché è stato condannato a dieci anni di prigione e 1.000 frustate nel 2013.

La colpa, se così si può chiamare, di Badawi resta quella di aver pensato di poter esercitare la libertà di pensiero, che in Arabia Saudita è però un crimine.

Dopo la condanna Raif è stato sottoposto ad una prima scarica di 50 frustate nel gennaio del 2015. Ferito in maniera grave è stato riportato in carcere e nonostante l’ampia campagna internazionale per la sua liberazione, è ancora detenuto in attesa di scontare tutta la pena.

In prima fila a coordinare la campagna per la sua liberazione è la giovane moglie, Ensafar Haidarche ha dovuto fuggire in Canada con i figli.

Questo è il volto reale di un paese che, tranquillamente siede negli organismi internazionali, senza che nessuno pensi seriamente di chiedere conto al giovane sovrano Mohammed Bin Salman di come quotidianamente vengono violati i diritti umani di donne e uomini.

Anzi il fatto che a giugno 2018 il regime abbia eliminato il divieto di guida per le donne (…sic!) è stato visto come un grande balzo in avanti.
Peccato che in carcere restino ancora alcune delle attiviste che hanno capeggiato la protesta !

Alcuni commentatori di fronte l’assordante ipocrisia internazionale che copre l’operato di Mohammed Bin Salman, dicono che forse l’unico vero motivo di preoccupazione del sovrano sia capire come tenere insieme una forte liberalizzazione in campo economico con una forte mancanza di libertà individuale.
Finora questa sintesi è riuscita solo alla Cina. Bisognerà vedere come farà il regno dell’Arabia Saudita, che di certo non sembra propenso a limitare la stretta repressiva.

Non sarà la comunità internazionale ad imporgli dei cambiamenti, visto che di fronte alla brutalità dell’omicidio Khashoggi, tutti, Trupm in testa, sembrano solo impegnati a cercare di trovare una maniera soft per far passare in secondo piano le responsabilità dirette della corona.


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