Tra fine marzo e i primi di maggio siamo in Libano all’interno dell’iniziativa “Sulle rotte dell’Euromediterraneo”, tre delegazioni in Tunisia, Turchia e Libano organizzate da Un Ponte per .. e la Coalizione Ya Basta Marche, NordEst, Emilia Romagna e Perugia
Andare in Libano ci permette di conoscere il paese dei cedri, la sua realtà, le sue contraddizioni e di riflesso anche quel che sta succedendo in Siria.
Diario
25 aprile – Sabra e Chatila
La prima visita che facciamo è nelcampo di Sabra e Shatila, sorto nel 1948 nella periferia a sud di Beirut, all’arrivo dei profughi provenienti dalla Palestina.
Ad accompagnarci è l’associazione “Beit Atfal al-Sumoud” (ASSOMUD), che dal 1976 si occupa di diritto allo studio, dando vita a momenti formativi per bambini, giovani ed adulti, accompagnati da interventi sul diritto alla salute e che è da tempo partner di Un Ponte Per.
Negli ultimi anni la popolazione del campo è aumentata a causa dell’arrivo massiccio di profughi palestinesi in fuga dal conflitto siriano. In migliaia si sono riversati nei già sovraffollati campi libanesi, sono stati ospitati da amici e parenti o hanno affittato appartamenti o stanze.
A Shatila, in particolare, hanno trovato alloggio anche molti libanesi poveri, iracheni, egiziani e migranti provenienti da paesi asiatici come Filippine, Sri Lanka e Bangladesh. Il campo si è trasformato così da un luogo vissuto solo dai profughi palestinesi a una zona con tutte le contraddizioni tipiche delle periferie delle metropoli.
26 aprile 2014 – Incontro con Lorenzo Trombetta.
L’incontro con Lorenzo Trombetta. Giornalista ed esperto di politica mediorientale e corrispondente di diverse tesate giornalistiche, ci serve per approfondire l’attualità libanese e la guerra in Siria
C’è chi presenta la situazione in Libano ovviamente come collegata a quella siriana, chi dice che l’influsso siriano porterà il paese ad una nuova stagione di tensione. Come vedi la situazione?
La stagione di tensione in Libano non si è mai arrestata. Dalla fine della guerra civile nel 1990/1991, è proseguita in maniera più o meno sanguinosa, ci sono degli scontri a livello locale, ma dopo tre anni e mezzo di violenze in Siria il sistema libanese ha retto all’ondata di profughi e di tensione. Continuano ad esserci degli episodi locali, ma non c’è stata nessuna deflagrazione su scala nazionale del sistema libanese. Questo perchè sostanzialmente tutti i principali attori politici, confessionali, militari libanesi non hanno interesse proprio a innescare scintille che possano rivelarsi decisive nel far esplodere la situazione.
Potremo perciò dire che si agisce in un contesto in cui quel che avviene, avviene in Siria, ed è ovviamente collegato a quel che succede in Libano, ma viceversa si tende a mantenere qui una situazione di “stabilità” per quello che si intende in questo paese.
La “stabilità” è sempre molto instabile, precaria ma proprio grazie a questa precarietà, alla capacità dei vari attori, ai vertici ma anche alla base, di essere flessibili, di saper gestire momento per momento, di frenare e accelerare, di alzare la voce ed abbassarla, di dialogare e di mandare un messaggio politico più duro inviando qualche miliziano a scontrasi con altri, come momenti di un gioco molto abile, grazie a questa flessibilità il paese tiene.
Sostanzialmente vi è una stabilità che va continuamente rinegoziata tra i vari attori, ma l’interesse di tutti è quello di mantenere la situazione più possibile ferma. Avviene come quando tante persone vivono nella stessa casa: stanno strette, hanno problemi a condividere il bagno o la cucina, si lamentano, litigano tra loro ma alla fine vivono tutti dentro quelle mura e preferiscono rimanerci, senza che nessuno se ne vada definitivamente, senza rompere i piatti.
C’è un numero imponente che va considerato: quello dei siriani arrivati in Libano. Stiamo parlando di un milione di persone su una popolazione libanese di circa 4 milioni di abitanti. Un numero enorme che attraversa i confini. Come sta cambiando in questo contesto la società libanese?
Ancora è presto per cercare di capire i mutamenti profondi nella società libanese. Per quanto tre anni siano tanti, nel corso di processi storici è ancora presto per dare una risposta in questo senso.
Sicuramente pesa un afflusso di siriani, non soltanto profughi, disperati, ma di tutti gli strati sociali che passano o si fermano in Libano. Grazie anche alla capacità e alla solidarietà, ad una rete familiare, clanica che offre ospitalità e cerca di assorbire nei vari contesti locali la pressione dei nuovi arrivati, questa massa di siriani sembra diluirsi. Ci sono delle zone dove effettivamente la pressione sembra essere esplosiva, altre dove sembra essersi integrata in maniera quasi armonica con il contesto locale. A seconda dei periodi ci sono momenti in cui in una regione la situazione sembra deflagrare ed altri in cui tutto sembra tornare quasi alla normalità. In alcuni casi dobbiamo ricordare che questo milione di persone non è solo gente che viene dalla Siria e passa e/o rimane in Libano, a volte ritornano al loro paese. Il flusso varia a seconda della situazione in Siria sia militare che umanitaria. Sono diverse migliaia i siriani che periodicamente provano a tornare, alcuni rientrano poi in Libano, altri rimangono. Quindi sono numeri come in una figura a soffietto che si allarga e si restringe a secondo della situazione. Stiamo parlando di un confine estremamente poroso.
Noi veniamo da un contesto in cui attorno all’Europa i confini sono ben definiti e non attraversabili facilmente invece tu descrivi il confine tra Libano e Siria come poroso e “mobile”: alcuni lo usano per transitare ed andare da altre parti, alcuni lo attraversano e poi ritornano. Perchè è cosi poroso?
Storicamente Siria e Libano, come noi li conosciamo come stati nazionali formalmente indipendenti, nascono da un disegno franco-britannico. I francesi in particolare hanno disegnato il confine tra Libano e Siria in maniera abbastanza arbitraria ritagliando quelle che erano le regioni ottomane del Levante. Parliamo di un secolo fa, del 1914, 1916, 1920, non tanto indietro nel tempo della storia. Hanno disegnato questo confine in territori che non erano divisi in quella zona. Regioni che continuano ad essere trasversali a questo confine, delle genti che normalmente, da secoli, avevano il pozzo d’acqua dove oggi è il Libano e il gregge in Siria, la moglie in Libano e la madre in Siria.
Perchè, dopo generazioni, dovrebbero considerare un confine che poi peraltro sul terreno in molte aree non è mai stato demarcato?
Se vi capiterà troverete zone dove qui è la Siria, qui è il Libano ma non c’è nessun segnale che lì è Libano e lì è Siria, è un unicum, un continuum. A volte ci sono delle barriere geografiche, una catena montuosa, un fiume ma in altri casi il fiume è un ruscello che viene attraversato dai bambini correndo sui ciottoli. E’ così difficile riconoscere la differenza tra questi due paesi in quelle zone frontaliere, che si spiega semplicemente la continuità tra questi.
All’interno della questione di chi arriva dalla Siria c’è la scelta del governo libanese di non cristallizzarne la presenza in campi profughi, che normalmente è la forma in cui si dà la prima accoglienza a chi sfugge da un territorio di conflitto.
Tutti i leader politici libanesi, ma anche un po’ l’opinione pubblica, ha in mente il ricordo dell’esodo dei palestinesi nel ’48, nel ’67, e poi nelle varie riprese successive. La vulgata, poi necessariamente non è così, ma la percezione popolare è che comunque gli stranieri, che siano palestinesi o che siano siriani, o comunque profughi, costituiscano un problema sociale, economico, politico e confessionale; quindi che possano alterare l’equilibrio locale, ma anche nazionale di questo paese, gestito da un confessionalismo politico molto marcato. Ecco perchè pensare di installare un milione o comunque centinaia di migliaia di siriani in una specifica regione, in un campo, che poi diventerà una tendopoli e dopo una baraccopoli e poi magari una città annessa ad un’altra grande città, rappresenta nell’immaginario dei politici e della base un incubo. Ecco perchè hanno preferito fino ad adesso vivacchiare grazie alla solidarietà delle comunità locali che hanno assorbito in modo più o meno egregio questa pressione.
Nella visita che abbiamo fatto al campo di Sabra e Shatila oggi ci dicevano che oltre alla storica presenza dei profughi palestinesi nel campo vivono altre persone migranti. Esiste una migrazione extra mediterranea?
Esiste moltissimo: ricordiamo il Corno d’Africa, le Filippine. il sud est asiatico, il Sudan. Parliamo di migranti provenienti da moltissime aree non arabe, non necessariamente musulmane ma comunque provenienti da varie regioni considerate più povere del Libano. La maggior parte di questi migranti sono badanti, svolgono i lavori più umili che i libanesi non vogliono più fare. Anche qui come da noi in Europa ci sono delle categorie per cui il sudanese è spesso il portiere o il lavascala, la filippina è la domestica. La filippina cristiana è la domestica presso i cristiani, mentre delle domestiche di paesi musulmani come il Pakistan vanno a servire nelle case dei musulmani. Anche qui il confessionalismo dei migranti è molto interessante. Un po’ come avviene nei paesi del Golfo, dove la migrazione indiana, del sud est asiatico, delle Filippine, dal Corno d’Africa è molto marcata. Dagli anni novanta c’è stata una crescita esponenziale di questo tipo di migrazione.
La tua attenzione sulla Siria è di lunga data. Sappiamo che è difficile brevemente raccontare quel che sta succedendo, ma puoi rappresentare in poche frasi l’attuale situazione, di cui non si parla abbastanza?
Dobbiamo sempre distinguere il livello meramente politico-militare da quello sociale ed economico. Nei nostri media si mette sempre risalto sulla questione politico militare in particolare sulle armi chimiche. Ma rimanendo in ambito politico-militare in Siria si combatte una guerra con armi convenzionalissime. Ieri semplicemente un nuovo raid aereo su Aleppo (e gli aerei li ha soltanto il regime e quindi è difficile parlare di narrative contrastanti) ha ucciso circa 28 persone tra cui donne e bambini con un arma convenzionalissima come quella del bombardamento aereo.
Il regime di Asad e i suoi alleati nella regione e in generale nell’ambito internazionale hanno riconquistato importanti porzioni di territori che vanno dalla regione costiera di Latakia e Tartus fin verso Damasco, il centro del regime, passando per Homs, che è la principale vittoria del regime.
Abbiamo poi una regione nordorientale dominata dal cancro qaidista. Si tratta di miliziani che dicono di ispirarsi ad Al Qaida ma hanno disobbedito più volte agli ordini dei vertici dell’organizzazione stessa ed operano esplicitamente come una forza di contro-insurrezione. Di fatto sul terreno si registra una convergenza di interessi espliciti tra queste forze qaidiste identificate nello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, Isis, l’acronimo inglese. Arrestano attivisti del movimento non violento, attivisti siriani antiregime, combattono contro ribelli antiregime, arrestano giornalisti, catturano giornalisti, arrestano e uccidono operatori umanitari, di fatto fanno il lavoro sporco che Asad non è riuscito a fare in quelle regioni o preferisce non fare anche perchè nella percezione occidentale è molto meglio che il cattivo sia un qaidista con la barba piuttosto che un presidente in giacca e cravatta che ha studiato un anno e mezzo a Londra.
I ribelli – questa grande definizione in cui si può mettere qualsiasi cosa dentro, miliziani, guerriglieri, terroristi ognuno può divertirsi con la terminologia che vuole – sono un fronte variegato, frammentato. Come non può che essere vista la storia degli ultimi quaranta, cinquant’anni in Siria. Il fronte armato riflette la frammentazione, la pluralità, la varietà di posizione che ci sono anche nell’ambito delle opposizioni politiche storiche sia quelle in esilio (non sono stati certo a Parigi o a Istanbul per loro piacere esiliati da tanti anni) che quelle in patria, tollerate fino a un certo punto, visto che ci sono arresti ogni mese.
Dall’altra parte c’è una frammentazione ed una mancanza di coordinamento, di coerenza, di sostegno anche esterno perchè il sostegno occidentale all’insurrezione non si è dimostrato decisivo e anche l’appoggio dei paesi arabi del Golfo, della Turchia è stato scoordinato ed influenzato da agende che hanno avuto a che fare poco con la causa dei siriani liberi ma molto con una radicalizzazione confessionale ed una militarizzazione che ha consentito ad Asad di legittimare la repressione in maniera violenta. Di fatto c’è una situazione di stallo in ambito politico militare, in generale sul terreno a medio termine vediamo un avanzamento delle forze lealiste.
L’altro aspetto che spesso non appare nei nostri media è che esiste una Siria civile che lotta a vari livelli contro diversi attori che sono sul terreno, per ricostruire il paese, per renderlo migliore di quello che era prima del 2011, per proporre dei valori diversi, la cittadinanza, la pluralità di voci, il principio di una società che può essere trasversale al di là dell’appartenenza confessionale, comunitaria. Certo sembrano delle gocce in un oceano, delle voci nel deserto ma una generazione di siriani, che ha per lo più un età compresa tra i venti e i quarant’anni, la generazione nata e cresciuta sotto il regime, ha dimostrato fin dal 2011 ed ancora oggi lo dimostra, ovviamente quando a parlare sono le armi è più difficile far sentire la loro voce. Questa società civile emergente, e sottolineo emergente, perchè non può essere altro che tale dopo cinquant’anni di lobotomizzazione politica, resiste, prova con varie forme a ricostruire il paese. Questo è un messaggio che è un dato di fatto che c’è sul terreno ma viene poco raccontato perchè come avviene nei media è sempre più importante parlare di un episodio violento, di un attentato che di una storia di ricostruzione e di speranza. E queste ci sono.
Sulla guerra in Siria pesano come dicevi prima attori internazionali. In questi momento di forti tensionii, basta pensare all’Ucraina e alla Crimea, questi nuovi scenari pesano sulle vicenda siriana. C’è qualcosa che accade in Siria che avviene per dire qualcos’altro?
Sì questo avviene e non è certo una novità. La Siria è da sempre al centro di equilibri mediorientali, regionali ed internazionali. La guerra per la Siria si combatteva prima in maniera non guerreggiata. Dal 2011 in maniera esplicita o meglio dal 2012 – perchè prima nel 2011 c’era un unico attore militare esplicito sul terreno che reprimeva le manifestazioni popolari – c’è stata una esplicita militarizzazione anche della rivolta, quindi gli attori si sono moltiplicati con il passare del tempo.
Oggi la guerra è guerreggiata ma la lotta per il potere in Siria è anche una lotta per il potere non soltanto a Damasco, ma per il potere, per la gestione delle risorse e del territorio anche più vasto della questione siriana. Ricordiamo che l’invasione angloamericana dell’Iraq sia stato un momento di questa lotta per il Medioriente, come la guerra civile libanese, parliamo di vent’anni fa, è un altro momento di questa questione, di questo interventismo, di questa interferenza straniera. Non è assolutamente una novità che oggi in Siria, ieri in Libano, l’altro ieri in Iraq ed ancor oggi in Iraq, ci siano dei territori che servono a mandare messaggi, fare guerre, esercitare pressione che devono avere ripercussioni in maniera molto, molto lontana. Durante la guerra civile libanese si diceva “si fa l’amore a Beirut e si partorisce in Cina” per far capire quanto un evento politico libanese, un paese piccolino quanto l’Abruzzo, avesse eco in questioni molto, molto lontane. Anche oggi la guerra siriana è il riflesso e, allo stesso tempo, causa di eventi su scenari ben lontani dalla Siria.
29 aprile 2014 Libano – Profughi, donne migranti lavoratrici domestiche: facce invisibili del paese.
In questi giorni che ci troviamo in Libano sì è conclusa con un nulla di fatto la prima votazione del parlamento libanese per l’elezione del nuovo presidente della repubblica che secondo la divisione confessionale che scandisce la vita politica spetta a un cristiano maronita, mentre il ruolo di premier a un sannita e quello di presidente di parlamento a uno sciita.
Sui nomi proposti finora – tutti con un pesante passato alle spalle e dunque sottoposti a veti incrociati – è difficile raggiungere un accordo anche perché non è facile trovare la quadra tra la Coalizione 8 marzo, capeggiata da Hezbollah e la Coalizione 14 marzo formata dal partito di Hariri ed altri. Sullo sfondo ancora una volta la situazione in Siria. Una parte appoggia apertamente Asad, con Hezbollah in testa ed l’altra la variegata opposizione e le milizie. Ognuno dei due schieramenti è collegato ai rispettivi patner regionali ed internazionali. C’è chi dice che la soluzione dell’elezione nell’equilibrio libanese potrebbe essere un uomo dell’esercito.
Questo in un quadro economico e sociale in cui al governo, indebitato con l’estero, i lavoratori stanno chiedendo l’aumento del salario minimo bloccato da anni. Proprio ieri ci sono state manifestazioni e oggi sarà sciopero promosso da organizzazioni sindacali del settore pubblico e privato con la rivendicazione dell’aumento generalizzato dei salari, per poter vivere dignitosamente a fronte della crisi e dell’aumento dei prezzi.
Ieri abbiamo visitato la zona di Tripoli, momentaneamente tranquilla anche se non meno di due settimane fa luogo di scontro tra componenti libanesi connesse alle parti in guerra in Siria, cioè filo o contro Asad. Ci sono alcuni posti di blocco sulla strada ed alcune zone sono ancora off limit, ma restando attorno alla città la vita sembra scorrere normale.
Anche qui sono arrivati moltissimi profughi. Anzi proprio queste aree sono considerate le più affollate.
Una presenza invisibile come dato collettivo, molto visibile per gli effetti che genera. In particolare in queste zone, ma non solo, i siriani accettano di essere pagati in agricoltura e nell’edilizia ancora meno di libanesi e palestinesi, il che sta generando non poche tensioni. Prima del conflitto numerosi siriani si spostavano per lavori stagionali in Libano, dove ovviamente i salari erano più alti. Lavoravano alcuni mesi e poi tornavano a casa, e così via. Adesso costretti a restare accettano quel che viene offerto da chi non esita a sfruttarli, creando un malumore crescente tra libanesi e palestinesi, che restano sempre più disoccupati.
Anche qui vivono in molti casi stretti in appartamenti, garage che vengono affittati a suon di dollari. Prefiscono stare vicino al confine con l’idea di tornare a casa appena possibile, anche se tutti quelli con cui parliamo non vedono prospettive a breve termine di cambiamento della situazione. Ed inoltre se anche la situazione cambiasse di certo molti siriani continuerebbero a lavorare in Libano visto la situazione di distruzione del paese da cui provengono.
Nel pomeriggio andiamo a visitare l’Associazione Amel, un’organizzazione non confessionale, il che non è poco in Libano.
Il loro lavoro consiste nella promozione dei diritti umani, civili e culturali, attraverso programmi di servizi sanitari, educativi, sociali, campagne di sensibilizzazione. Ci tengono a dire che non fanno differenza tra le persone da assistere, mentre in genere le prestazioni sociali vengono date a seconda della confessione religiosa di appartenenza.
Una parte delle loro attività è dedicata al supporto delle migranti lavoratrici domestiche.
All’oggi i dati parlano di 200.000 donne in regola e 70.000 irregolari che lavorano come domestiche, badanti, baby setter nelle case di famiglie libanesi. Vengono dall’Asia (Filippine, Sri Lanka …) e dall’Africa (Costa d’Avorio, Etiopia ..).
Un flusso simile a quello che arriva nei Paesi del Golfo.
Se entrano in regola arrivano attraverso una sorta di chiamata ed un sponsor o diretto, il datore di lavoro, o attraverso quello che gli procurano le oltre 500 agenzie che esistono nel paese.
Le loro condizioni come ci vengono raccontate sono una sorte di “schiavitù moderna”. In molti casi il passaporto è trattenuto dai datori di lavoro, non possono lasciare la casa in cui lavorano, non hanno giornate di libertà. Una condizione che non risponde alle regole internazionali fatte dall’ILO.
In Libano non esiste una normativa del lavoro che difenda queste donne. tanto è vero che su questo l’associazione si sta battendo perchè le leggi libanesi cambino e alcuni diritti vengano inseriti nella normativa nazionale.
L’associazione offre consulenza legale per la difesa dei diritti, molte volte calpestati di queste donne, facendo riferimento alle normative internazionali anche se servono anni per un processo.
Gli altri servizi offerti sono corsi di lingua, assistenza sanitaria e consulenza sugli aspetti connessi al permesso di soggiorno oltre a rendere possibile momenti di incontro e di socialità per spezzare la solitudine delle “migrant, domestic workers”.
I casi di violenza e discriminazione sono tanti e arrivare a denunciarli non è semplice.
Se vieni licenziata o te ne vai hai un anno di tempo per trovare un altro lavoro se no diventi illegale. In molti casi le donne denunciano che il padrone, come dicevamo, si tiene il passaporto, il che ti rende immediatamente illegale.
Se vieni fermata e non sei in regola con il permesso, il rimpatrio è garantito: il volo viene pagato o dal governo o dal padrone o da associazioni.
Anche in questo settore l’arrivo dei profughi siriani ha creato nuova concorrenza infatti se il salario medio adesso è di circa 7000 lire libanesi (3,50 euro) all’ora, le siriane accettano anche 6000 lire. Abbassando così l’assicella salariale e creando concorrenza e “guerra tra poveri”, proprio all’interno della situazione generale di crisi.
L’associazione promuove anche la denuncia della tratta e del traffico di essere umani.
Le lavoratrici domestiche manifesteranno la prima domenica di maggio in difesa dei loro diritti. Non manifesteranno il primo maggio, perché non essendo la data riconosciuta come festività, non possono lasciare il loro posto di lavoro. Attraverseranno Amra, quartiere centrale di Beirut, per rendersi visibili e rivendicare diritti e dignità. Una dignità che viene in molti casi calpestata dai datori di lavoro libanesi e che fa sì che le statistiche parlino di un suicidio alla settimana tra le lavoratrici domestiche.
29 aprile – Appunti dal Libano: dove finisce chi arriva dalla Siria?
Non sono sufficiente certo pochi giorni per comprendere una realtà come il Libano, ma alcuni spunti, come spesso succede, possono venire a lato degli incontri che si fanno ed osservando parzialmente quel che intravedi.
Per cui ecco poche note dopo solo tre giorni in cui ci troviamo nel paese e per ora siamo andati nei campi profughi storici palestinesi di Sabra e Shatila, in un paio di quelli situati nella zona di Tiro e nella Valle della Bekaa, visitando le strutture costruite e gestite dall’Assomud, organizzazione palestinese laica che si occupa, di formazione e sanità.
L’impatto con Beirut centro non fa che confermare, adattandolo ai tempi contemporanei, la definizione del Libano come “svizzera del medioriente”. Alcune zone ti colpiscono per le costruzioni imponenti, i palazzi lussuosi, le vie piene di negozi dei grandi marchi, altre per le strade e agglomerati ristrutturati e puliti, li ocali alla moda, altre per la sfilza di ristorantini e baretti pieni di ragazze e ragazzi all’ra dell’aperitivo.
Uno scenario ben diverso dalle città anche grandi del Maghreb. Tutto intorno cantieri in costruzione in parte collegati alle imprese connesse con la famiglia Hariri ed altri legati con altri centri di potere economico. I prezzi immobiliari di cui ci raccontano ci parlano di un mercato possibile di acquirenti in grado di spendere cifre a tanti zero per comperare case, appartamenti ed uffici. Un’immagine dunque che conferma come nei nuovi scenari la vocazione di questo paese sia quella di attrarre ed essere luogo di gestione di ingenti flussi finanziari di ogni tipo.
Questo spiega in parte perché secondo alcuni, al di là della competizione formale tra le forze politiche, confessionali presenti nel paese ci sia la volontà di mantenere una stabilità che si rappresenta oggi in un governo di “larghe intese” alle prese proprio in questi giorni con la lunga questione dell’elezione del presidente, frutto di equilibri ovviamente difficili da trovare, anche perché collegati ai legami regionali ed internazionali di ogni componente.
La fotografia di Beirut centro con le sue luci ed il suo luccichio man mano cambia di inquadratura quando ti sposti verso le periferie, piene di palazzoni dove più forte è la presenza di Hezbollah.
Non è possibile affrontare il Libano senza collegarlo a quanto avviene in Siria e nell’intera regione e nello scenario delle connessioni internazionali che si consumano nella guerra siriana.
Quanto il futuro sia “nelle mani dei libanesi” e quanto sia nelle scelte regionali, internazionali che collegano nel mondo globalizzato ogni dinamica è una domanda che non riguarda solo questa terra ma ogni territorio. Tensioni ed attori locali richiamano questioni globali e viceversa in questa nostra contemporaneità in divenire all’interno di scenari internazionali che non hanno certo un solo manovratore, ma più attori nella ricerca di ridefinizione geopolitiche di intere zone.
E quel che avviene in Siria e si riflette in Libano non è certo esente da queste dinamiche.
Dalla Siria sono arrivate più di un milione di persone, sfuggendo alla guerra.
Siamo partiti avendo ben chiaro in testa questo imponente numero.
Arrivati qui, per il momento, quel che abbiamo compreso è che il flusso attraverso il confine avviene in maniera ben diversa dalla classica dimensione della costruzione dei campi profughi come di solito succede.
I siriani che abbandonano la loro terra, magari per un periodo per poi provare a tornare e magari di nuovo ritornare in Libano, si diluiscono e si inseriscono nella realtà libanese a seconda della loro provenienza attraversando in molti casi la rete delle relazioni presistenti.
Chi appartiene alle fasce elevate della società siriana si può stabilire nella capitale, affittare una casa, aprire un’attività.
Chi proviene da fasce più povere cerca di sistemarsi nei villaggi, magari in affitto in tre, quattro famiglie insieme, oppure finisce nei quartieri più poveri o negli storici campi profughi palestinesi, come ci hanno raccontato a Sabra e Shatila dove gli affitti sono più bassi.
Chi è palestinese e viveva in Siria finisce nei campi palestinesi, aumentando il numero già ampio delle persone e delle difficoltà..
La presenza dei profughi siriani per quel che abbiamo visto finora non è visibile, raggruppata anche perché su questo punto la posizione delle autorità libanesi è chiara e non prevede punti raccolta collettivi di chi arriva.
Questo non significa che sia una situazione facile soprattutto per chi ha lasciato la Siria senza niente: ci sono fondi dati dalle agenzie dell’Acnur ai rifugiati ma come sempre sono insufficienti. In Libano l’accesso ai servizi, come quello sanitario o educativo non è garantito neanche ai profughi storici, come quelli palestinesi e dunque men che meno ai nuovi arrivati.
Chi entra in Libano deve andare a registrarsi a Beirut se vuole figurare negli elenchi dei profughi. Non tutti lo fanno che chi sceglie di non apparire per paura di ritorsioni sui famigliari rimasti in Siria o per paura di finire nel mirino dalle forze libanesi che appoggiano uno o l’altra degli attori del conflitto siriano.
In molti, soprattutto quelli più poveri seguono il flusso degli aiuti umanitari e si vedono, da quel che ci raccontano, nei momenti in cui vengono distribuiti aiuti, kit alimentari e sanitari di volta in volta in posti diversi.
Di certo come per tutti quelli che sfuggono da situazioni di conflitto non esiste la possibilità che sarebbe quanto mai fondamentale qui come in ogni parte, di accedere alla possibilità di muoversi verso l’Europa o verso altri luoghi in maniera semplice e diretta attraverso canali umanitari pubblici e garantiti.
I siriani che arrivano in Libano costituiscono inoltre un ulteriore bacino di mano d’opera a basso costo con tutte le conseguenze del caso per chi vuole sfruttarli.
Di quel che avviene in Siria ci parlano direttamente per primi due ragazzi palestinesi che incontriamo presso un centro palestinese.
Sono arrivati da pochi mesi, scappati da un campo palestinese che in migliaia hanno lasciato perché stretto tra la repressione del regime e le forze d’opposizione armate. Subito ci tengono ad affermare la loro opposizione al regime siriano, sottolineando come il problema non sia una sola persona Asad ma un sistema di potere, un regime appunto.
Alla domanda se ci fosse libertà in Siria non hanno esitazioni a rispondere no.
Si definiscono attivisti non violenti anche se dicono di comprendere chi imbraccia le armi. Dicono di essere stati perseguitati semplicemente per il fatto di denunciare e raccontare quel che patiscono le persone questo sia da parte del regime che dei “barbuti”. Attraverso la traduzione non facile dall’arabo ci raccontano la situazione di dramma umanitario che vivono in migliaia di persone a Yarmouk, campo palestinese di Damasco, accerchiato dall’esercito siriano perché all’interno vi sono ribelli armati. Una situazione di assedio che dura da anni e che negli ultimi mesi si è fatta sempre più insostenibile, con pochi aiuti umanitari alimentari che vengono portati con il contagocce causando feriti e morti tra le persone che cercano di avere qualche alimento.
Ci parlano poi del fatto che esistono altri attori che si oppongono al regime non solo i gruppi armati in molti casi finanziati dall’esterno.
Raccontano come nel 2011 prima e dopo l’inizio della rivolta contro il regime in poco tempo sono stati imprigionati migliaia di persone, in molti casi impegnati a mantenere i legami tra una fascia intellettuale e la base sociale, impedendo lo sviluppo di un’opposizione articolata. Si è così creata una situazione, ci raccontano, in cui in molti non hanno più avuto punti di riferimento e dove è stato facile aderire ad altre forme di opposizione.
Cerchiamo di saperne di più ma non è semplice capirsi e perciò ci ripromettiamo di rincontrali nei prossimi giorni.
In questi primi giorni in Libano abbiamo chiesto più volte ai palestinesi che ci accompagnano qual è il loro punto di vista su quel che succede in Siria, dove la presenza dei profughi palestinese sotto il regime era accettata e garantita. Il discorso ufficiale che ci viene proposto è che un conto è l’opposizione interna siriana al regime, un conto gli attori armati finanziati e mandati dall’esterno (dagli americani e dai paesi arabi) per destabilizzare l’intera area. Poi quando si riesce ad andare più a fondo e superare le “dichiarazioni ufficiali” si colgono maggioramente le sfaccettature e le contraddizioni tra chi anche palestinese vede le cose siriane dal Libano e chi venendo direttamente dalla Siria è più esplicito e diretto nel denunciare il regime.
Tra i palestinesi che abbiamo incontrato è forte il tentativo di leggere in maniera schematica la situazione e solo quando insisti si arriva ad ammettere che se si parla di ingerenze straniere in Siria non ci sono solo da una parte, quella occidentale e araba ma anche Iran, Russia giocano un ruolo rilevante. In più di un discorso c’è stato sottolineata la preoccupazione per la presenza in Siria ed ovviamente in tutta l’area delle forze che utilizzano la religione per i propri fini politici, cosa che peraltro avviene anche tra le componenti palestinesi a volte anche qui in forte attrito tra loro.
Certo è che quel che succede in Siria conta e non poco nella realtà di tutti i protagonisti libanesi, palestinesi compresi.
30 Aprile 2014 Libano – Tra confessionalismi e crisi economica e sociale
“Il regime libanese non ama lavoratori e contadini, ma le banche e le società connesse con il sistema finanziario. La malattia pericolosa del Libano è il confessionalismo”. Inizia con queste frasi l’incontro con Talal Salman del giornale Assafir. La descrizione della realtà del paese non lascia dubbi nel nostro interlocutore: i partiti al potere utilizzano gli slogan confessionali per mantenere il loro potere. Sono divisi nelle varie fazioni religiose e ancora sulla base delle loro relazioni internazionali peraltro legate alla crisi siriana. Si tratta però di un elite politica che condivide il sistema economico neoliberale. I partiti sono indissolubilmente legati l’uno all’altro nel mantenimento del sistema. Lo si vede anche in questi giorni con la vicenda, quasi una sorte di “teatrino”, peraltro guidato anche dall’esterno, dell’elezione del presidente.
Un giovane giornalista che partecipa all’incontro ci parla delle ultime proteste dei lavoratori pubblici e degli insegnanti sia pubblici che privati per l’aumento dei salari, all’interno di una vertenza che dura da tre anni per equiparare le retribuzioni all’aumento dell’inflazione.
Proprio il 29 aprile c’è stata una grande manifestazione nel centro, accompagnata da scioperi e il giorno dopo un sit-in davanti al Parlamento e due ore di sciopero nel trasporto aereo. Queste vicende sono la dimostrazione di una crisi economica, sociale che nel paese oggi non ha risposte da parte del governo. Aggiunge che non si tratta ancora di movimenti estesi a livello sociale e di base. Alcuni degli esponenti della protesta sono affetti anche loro dalla “malattia del confessionalismo”. Ci sono diversi protagonisti della protesta e nell’incontro i nostri interlocutori dividono tra quelli che sono scesi in piazza con la coalizione di associazioni degli insegnanti UCC in un corteo che ha attraversato il centro città da quelli che hanno manifestato il mercoledì davanti al Parlamento su indicazione della General Labor Confederation, che definiscono come “destra”. Anche se sottolineano che in questa dimensione confessionale che attraversa tutte le questioni usare le definizioni di destra e sinistra è impossibile.
Tornando alle proteste di questi giorni, il giovane giornalista dice che quello che sta succedendo può però essere l’inizio di qualcosa di nuovo nel paese anche se niente è scontato.
E’ la prima volta da tempo che si utilizza la strada, le manifestazioni per fare politica e questo è una novità. Le ultime proteste (dopo quelle dal 2005 in uno contesto completamente diverso per allontanare la presenza siriana) erano state quelle di circa due anni fa contro il confessionalismo e per cambiare il sistema politico, che però non hanno portato a risultati reali. Quando si tornerà a scendere in piazza su questi temi si potrà dire che sta iniziando un cambiamento per ora stanno succedendo delle cose interessanti ma non si tocca ancora il tema del sistema, ci dicono nell’incontro.
Alla conclusione della chiaccherata il giovane giornalista ci dice che comunque come sempre che quel che può succedere in futuro non si può certo sapere in anticipo, come ha dimostrato la storia di quel che è successo a partire da Sidi Bou Zid in Tunisia ormai quasi tre anni fa.
Il giorno dopo andiamo alla manifestazione, l’unica di piazza, per il Primo Maggio convocata dal Partito Comunista libanese. Si parte da Barbir Street per arrivare sotto la sede del Governo, tra bandiere rosse ed inni.
Al comizio finale incontriamo Hanna Gharib, uno dei portavoce delle proteste dei lavoratori.
“Noi siamo in lotta da tre anni per i salari, chiediamo un aumento del 121% pari all’inflazione. Il Parlamento rifiuta la nostra richiesta. Chi scende in piazza sono lavoratori pubblici, insegnanti delle scuole pubbliche e private. Alle rivendicazioni si sta rispondendo che, come da ogni parte nel mondo, non ci sono soldi, il paese è in debito. Ma i fondi si possono trovare tassando i ricchi e la speculazione.”
Il governo di fronte alle proteste parla invece di un aumento dell’equivalente dell’Iva, che viene rifiutato dai manifestanti perchè si tratterebbe ancora una volta di peggiorare la condizione economica soprattutto dei più poveri.
Alla manifestazione del Primo maggio partecipa più gente del solito, tra le 1000 e 1500 persone, proprio per la concomitanza con le mobilitazioni di questi giorni, ci spiega un giovane palestinese presente al corteo.
Che la condizione economica sia difficile in Libano c’è lo confermano anche alcuni ragazzi. Trovare lavoro è difficile ed in più l’arrivo dei profughi siriani ha peggiorato ancor più la situazione visto che accettano salari bassi, creando una concorrenza tra poveri molto preoccupante per gli effetti sociali che può generare.
Ci raccontano che da un punto di vista della solidarietà umanitaria c’è chi sta raccogliendo fondi per i profughi, come con il concerto organizzato in questi giorni per la Siria ma la preoccupazione sta crescendo nel paese proprio per la concorrenza sul lavoro. Chi è ricco continua ad arricchirsi mentre in generale la disoccupazione aumenta così come la difficoltà a vivere.
Anche per avere un lavoro appartenere o meno ad una confessione religiosa diventa un requisito, che si accompagna ad una corruzione generalizzata della classe politica. Molti giovani libanesi in molti casi migrano verso paesi come quelli del golfo.
Una piccola parte detiene le ricchezze frutto dei flussi economici finanziari di ogni appartenenza religiosa e politica mentre quella che potremo definire classe media ha sempre più problemi ad arrivare a fine mese ed i poveri sono in aumento.
L’immagine del Libano è quella del famoso 1% della popolazione, composto da ogni tipo di confessione religiosa e collegato a tutti gli attori internazionali, che detiene potere e ricchezza e dall’altro il 99% frammentato tra libanesi che ora fanno fatica a quadrare il bilancio, libanesi già poveri e poi ancora palestinesi rifugiati ormai da decenni privati di diritti essenziali, siriani che sfuggendo da una situazione drammatica accettano ogni tipo di compenso con il rischio di generare tensioni sociali, donne migranti trattate senza diritti.
Una gerarchia sociale che in questo pezzo di mondo si vuole mantenere anche attraverso le nuove forme della guerra che allungano le proprie ombre devastanti dalla Siria.