Aprile 2011 – In Tunisia per incontrare la Primavera

Partecipiamo ad una delegazione italiana formata da realtà del mondo associativo, sindacale, dei partiti per incontrare i protagonisti delle proteste che hanno portato alla caduta del regime di Ben Ali in Tunsia e che hanno dato inizio alla Primavera Araba. Ci andiamo per conoscere, capire e creare relazioni per tornare.

Venerdì 1 aprile – Arrivo a Tunisi

Arrivati a Tunisi di sera ti accolgono le strade moderne che dall’aeroporto portano al centro città. Anche se è sera i locali e ristoranti sono aperti e la città, almeno nelle sue strade principali, vivace. Qualche mezzo blindato staziona nelle vicinanze di edifici di importanza generale come la sede della televisione.

Uno sguardo a Al Arabya Tv ti fa capire, anche se solo dalle immagini, che l’attenzione è puntata su quanto avviene in Libia. Le immagini delle strade libiche con i gruppi antigovernativi a bordo dei loro veicoli vengono ripetute in loop accompagnate dai commenti, purtroppo in arabo e dunque per noi incomprensibili, dei giornalisti.

La mattina appena esci vieni circondato dalla vita pulsante di una città operosa, attiva, dove donne e uomini si muovono tra mercati all’aperto, tram su rotaie, negozi di ogni tipo. Le edicole sono piene di quotidiani che fin dalle testate ci tengono a sottolineare la loro natura di “giornale indipendente”. Tra i titoli in francese spiccano quelli dedicati alla situazione dei migranti sbarcati a Lampedusa, alle inumane condizioni in cui sono trattati, alla mancanza di una politica dell’accoglienza da parte dell’Italia e più in generale dell’Europa. Basta scambiare poche battute al volo con un paio di passanti per chiedere indicazioni, perché ognuno ci tenga a dire che adesso il paese è cambiato, che adesso si può parlare e che ovviamente l’amicizia per gli italiani è tanta anche se noi, il “nostro” Ben Ali, lo abbiamo ancora

Incontriamo subito uno degli organizzatori della spola volontaria che si è creata per portare aiuti ai profughi in fuga nei campi alla frontiera tra Libia e Tunisia. Più di 150.000 persone che sono state assistite ed accolte dai tunisini basandosi solo sulle proprie forze. Un atteggiamento di solidarietà che fa vergognare pensando all’Italia e all’Europa. Ci racconta di come si è organizzato insieme ad altri per raccogliere medicine e alimenti. La prima raccolta è partita da davanti all’ambasciata libica e da allora si continua con una sorta di “passa parola” autorganizzato che ha permesso di portare migliaia di chili di materiali nelle tendopoli. I profughi in parte sono ripartiti ma il flusso non si ferma ed è destinato ad ingrossarsi vista la situazione in Libia. Con lui e questa rete aperta di singoli e organizzazioni, andremo il prossimo fine settimana con la Carovana Uniti per la Libertà a portare anche il nostro contributo materiale alla frontiera.

L’incontro successivo a cui partecipiamo è presso la ben organizzata e centrale sede del Sindacato UGTT. E’ una sorta di presentazione ufficiale della delegazione promossa dalle organizzazioni tunisine interne al Forum Sociale del Maghreb, a cui partecipano oltre a noi italiani anche altri europei e rappresentanti del Marocco, del Senegal, della Costa d’Avorio etc .. Nell’incontro diversi interventi sottolineano l’importanza di quanto è accaduto a partire dalla rivolta tunisina, che qui chiamano “le revolution”, per tutti i paesi arabi e non solo. Chi interviene per sottolineare che “le revolution” affonda le sue radici nelle lotte degli anni sessanta e settanta nonostante la repressione generalizzata sotto Ben Ali, chi descrive in questa fase di transizione la necessità che si vigili e si continui a scendere in piazza per i cambiamenti politici e economici (per politici si intende l’insieme della conquista di libertà e diritti per economici si intende la conquista di un reddito che permetta di vivere dignitosamente e di non patire la precarietà e la disoccupazione).

Diverse donne insistono giustamente sul ruolo fondamentale che hanno avuto ed intendono avere nella costruzione del cambiamento che non si ferma all’allontanamento di Ben Ali. Le preoccupazioni comuni sono rivolte al perdurare della presenza di uomini e strutture collegate al vecchio sistema di potere all’interno degli apparati. Alcuni interventi affrontano le prospettive di luglio quando si terrà l’assemblea costituente, soffermandosi in particolare sulla necessità, ad esempio, che il sindacato continui ad essere tale e che si costituiscano partiti politici in grado di avviare un processo democratico. Alcuni giovani ricordano come nei primi momenti la mobilitazione sia partita spontaneamente dalla gente, dalle basi sociali e poi i sindacati in maniera ufficiale hanno partecipato, così come altre organizzazioni. Si percepisce, anche per noi non addentro appieno alle dinamiche tunisine, che c’è tanto da discutere e decidere, da cambiare e mettere in gioco … ma che di certo in dietro non si torna.

E’ come se tutto sia stato e sia in movimento sotto la spinta della rivolta, costata anche molti morti, a cui tutti insieme dedichiamo un minuto di silenzio.

Unanime è la richiesta di trovare nuove relazioni tra le nostre sponde del Mediterraneo. Relazioni all’insegna della cooperazione e della libertà. Un futuro ben diverso dalle relazioni bilateriali ferma-migranti e all’insegna del business per pochi che hanno strangolato la Tunisia fino a pochi mesi fa.

Unanime è la consapevolezza di un’epoca nuova che si è aperta con quanto sta succedendo in tutto il mondo arabo che pur con le reciproche differenze si riflette nell’intero continente africano.

Questi primi incontri sono parziali e di certo limitati ma, così come le battute scambiate in giro, ti danno la misura di quanto percepivamo anche da casa nostra: un mondo si è messo in cammino. Dove andrà, cosa succederà, che complessità si troveranno ad affrontare gli uomini e le donne che abbiamo visto nelle immagini via internet ancora non si può definire. Ma di certo nel tempo della crisi globale viviamo in termini accelerati un presente in cui niente è più come prima.

All’uscita dalla sede del sindacato ci imbattiamo in un combattivo corteo che si dirige verso la sede del governo. Il motivo è formalmente l’opposizione alla censura, ma soprattutto l’opposizione alla nomina da parte del Capo del governo di un nuovo Ministro della Sicurezza (è già il terzo che viene sfiduciato dalla piazza) mal visto per i suoi ambigui rapporti con la famiglia di Ben Ali. Scopriremo in serata che il corteo si è scontrato con la polizia e che ci sono stati lanci di lacrimogeni e feriti.

“Kasbah 3 “ è la formula con cui si sta costruendo anche in questi giorni la nuova fase della protesta dopo la Kasbah 1 e 2 che hanno accompagnato i cambiamenti già raggiunti. Non ci si vuole accontentare di un maquillage formale, ma c’è la consapevolezza che si deve vigilare e fare pressione dal basso per frenare ogni tentativo di restaurazione.

Mentre ci apprestiamo di corsa a salire sulla corriera per andare verso il sud della Tunisia dopo l’incontro che facciamo con un ong, ci raggiunge un attivista dei movimenti sociali per confermare quello che avevamo sentito: è confermata la visita di Berlusconi lunedì. Un viaggio volto a fare pressione perché si torni al passato e la Tunisia garantisca con ogni mezzo il blocco dei flussi migratori. Cosa porterà Berlusconi per premere sul precario governo provvisorio? Ovviamente business… e c’è anche chi scherza dicendo che a questo punto potrebbe comperare una casa anche in Tunisia. Sicuramente prometterà mirabolanti nuovi accordi, in fondo l’Italia è sempre stata tra i maggiori partner del governo di Ben Ali. Per il governo tunisino si tratterà invece di tergiversare e prendere tempo, stretto da un lato dai tunisini che non vogliono piegarsi di nuovo ai diktat in materia di migrazione della fortezza Europa e le inevitabili pressioni economiche di Berlusconi ed i suoi partner locali. A Tunisi e non solo si vogliono organizzare delle proteste, ci sarà una conferenza stampa. Non c’è bisogno di grandi discussioni per decidere tra noi italiani di appoggiare la protesta contro il nostro Presidente del Consiglio. Intanto nelle manifestazioni del 2 aprile a parlare per noi sarà un rappresentate dei movimenti sociali tunisini poi da Tunisi arriverà una petizione da firmare e lunedì saremo con loro a protestare.

Una protesta che ci può unire per costruire uno spazio comune: quello dell’euromediterraneo dei diritti e delle libertà.

2 Aprile 2011 Kassarine

Dopo quasi un giorno di viaggio finalmente con la delegazione del Forum Sociale Mondiale raggiungiamo Kassarine, città nel sud del Paese che tutti hanno imparato a conoscere come ‘la ville des martire’, ovvero la città dei martiri.

Ci arriviamo attraversando piccoli paesini tra un campo d’olivi e l`altro; qui tra la fine dello scorso anno e i primi giorni di gennaio ci sono stati gli scontri più duri tra i manifestanti e la polizia di Ben Ali. A scendere in piazza sono stati soprattutto giovani, sostenuti dall’intero tessuto sociale di questa città, protestando contro la disoccupazione e la mancanza di ogni forma di welfare. Tra l`8 e il 10 di gennaio, gli ultimi giorni del regime, sono stati quasi cento i morti che hanno trasformato Kasserine nella città dei Martiri per la libertà. Questa parola ha perso ormai ogni connotazione religiosa ed é usata per descrive il coraggio di coloro che hanno sfidato con la vita la polizia del regime e del suo potere clientelare, criminale e corrotto.

Arriviamo al mattino presto nella piazza principale, dove attorno al monumento centrale, da quasi due settimane, è stato allestito un sit-in permanente di protesta in cui sono stati appesi decine e decine tra lauree e diplomi di chi sta facendo lo sciopero della fame. Un laureato in econometria, un altro in scienze naturali, un altro ancora in matematica: sono tutti disoccupati che denunciano come, nonostante la cacciata di Ben Ali, i motivi della rivolta bruciano ancora. Nessuna risposta alla disoccupazione, nessun miglioramento delle condizioni materiali di vita.

A tutto questo si aggiunge la rabbia per l’impunità di quei poliziotti che hanno compiuto un vero e proprio massacro: molti responsabili della repressione, dei morti e delle torture di quei giorni infatti sono ancora al proprio posto.

“Questa città ha iniziato la rivoluzione ma fino ad ora dal nuovo governo non c’è stata nessuna attenzione alle nostre richieste”; “il governo locale, seppure oggi in mano ad una giunta militare, è ancora lo stesso che si intasca i fondi e ci lascia in miseria” ci raccontano con rabbia. “A Tunisi nascono decine di partiti politici nuovi, vanno in televisione a presentare i loro programmi mentre qua non cambia nulla. Ma siamo noi che abbiamo fatto la rivoluzione! Sono i nostri figli e fratelli che sono morti”.

Si respira un’aria tesa, una rabbia che i “cambiamenti formali”, come vengono definiti, non sono decisamente riusciti a sopire.

Un gruppo di signore armate di scope denuncia la propria situazione: sono lavoratrici dei servizi di pulizia pagate fino a ieri con un salario da fame e che, dopo anni di servizio, sono state licenziate in tronco senza alcuna prospettiva futura

Ognuno ti racconta “che c’era” in quei giorni terribili a scontrasi con la polizia; proprio per questo non possono accettare il fatto che, oggi, non vengono ascoltati.

Tunisi da qua sembra ancora più lontana; una lontananza che viene vissuta con una indignazione che non risparmia decisamente nessuno: i nuovi partiti così come il sindacato. Qualsiasi cosa che ricordi le istituzioni o la Repubblica è visto infatti con diffidenza.

E’ un malessere profondo quello che si percepisce: é l`indignazione di chi è esploso e si è rivoltato senza ottenere alcuna risposta. Nel mezzo, a cercare di dare una forma a questa rabbia, si muovono oltre ai quadri sindacali alcuni attivisti (insegnanti, avvocati etc ..) che cercano di comporre collettivamente lo sfogo di ognuno.

Da Kassarine la transizione che la Tunisia che sta vivendo appare ancora più fragile, piena di tensioni ed intensi rapporti di forza. Che questo processo non sia lineare é evidente, laddove si tratta di sedimentare nuovi assetti istituzionali della democrazia e di rispondere alle istanze sociali di coloro che, qualche mese fa, hanno cacciato il regime.

Riforme sociali e processo costituente devono procedere separatamente o sono piuttosto principi inseparabili?

Da un lato c`é chi sostiene che oggi le priorità di questo Paese sono quelle di fondare anzitutto le proprie garanzie democratiche.

Dall’altra c`é chi afferma che questo processo non può che andare di pari passo con il rispondere ai bisogni sociali di chi si é sollevato. Non c`é il tempo di rimandare la questione della povertà e delle aspettative sociali di una intera generazione istruita e disoccupata; anzi, sono proprio le risposte a questi nodi scottanti che devono fondare il nuovo passaggio costituente.

In queste due posizioni si rispecchia un paese diviso anche territorialmente tra la capitale Tunisi e le sue provincie del sud.

Il rischio di una nuova crisi politica é forse imminente laddove le piazze si sono trasformate in luoghi permanenti di discussione, indignazione e confronto sociale. Ma sono proprio questi luoghi a mantenere aperto, con pervicacia, quel processo che ha spiazzato tutti, che qualche mese fa é riuscito a cogliere tutti di sorpresa.

I racconti di Kassarine, che abbiamo continuato ad ascoltare anche nella sede del sindacato invaso da tante donne e uomini ansiosi di essere ascoltati, sono la denuncia di una corruzione che si é fatta insopportabile, di una miseria imposta che non si vuole più tollerare.

“Guarda mio fratello, guarda come l`hanno ridotto. Adesso ci vogliono dimenticare, ci vogliono far tacere” ci dicono i più giovani, mostrandoci dai loro telefonini i video che hanno girato quei giorni all’ospedale. “Noi vogliamo giustizia, altrimenti torneremo nelle strade”. “La rivoluzione deve continuare, deve riesplodere!”.

La rabbia e la forza dipinta sui volti dei giovani tunisini di questa città ci dice che non vogliono tornare indietro; allo stesso tempo la loro partenza in migliaia verso Lampedusa, grazie agli aiuti della propria famiglia piuttosto che dei trafficanti internazionali, fa parte di questa rivoluzione appena iniziata nel mondo arabo. La Tunisia é un continuo ribollire: a Tunisi ieri la polizia ha disperso un corteo di migliaia di manifestanti che ancora scendono in piazza, mentre oggi a Tozeu un ragazzo ha perso la vita negli scontri.

In serata ci giunge la notizia della prima manifestazione nella capitale chiaramente ed apertamente filoislamica dallo scoppio delle rivolte anti regime, un corteo in cui sembra sia stata notevole la presenza di donne velate. Una presenza rara, in verità, nelle strade di un paese che ci sembra molto “europeo” im particolare per quanto riguarda stili e comportamenti giovanili. Questo tentativo di forzare la mano al magmatico dibattito tunisino mettendovi al centro la questione religiosa, viene accolto con un misto di freddezza ed ostilità dalla popolazione che incontriamo. Se da un lato c’è chi sostiene che anche quella religiosa fa parte di quelle “libertà” che il passato regime soffocava e che ora la gente sta riconquistando, dall’altro c’è chi teme che le difficoltà della transizione, ed ancor più l’acuirsi della crisi libica, possano offrire una sponda a fondamentalismi religiosi non graditi. Circola sulle agenzie di stampa infatti la notizia di un’altra manifestazione, di segno opposto, avvenuta a Ben Guardane, cittadina a pochi kilometri dal confine libico e dal campo profughi di Ras Jadir, meta della prossima carovana. La popolazione oggi è scesa in strada dove, armata di bastoni ha chiesto l’allontamento dei “barbuti”, gruppi di islamici radicali che straebbero approfittando della situazione per imporre regole islamiche all’interno del campo, limitando la presenza di volontarie donne e imponendo loro di non scoprirsi mai le braccia e capo. Regole evidentemente non accolte dalla popolazione locale .

Il 9 Aprile sarà un`altra giornata di grande mobilitazione: questi mesi straordinari hanno reso impossibile anche solo immaginare un ipotetico ritorno al passato. Il futuro é qui, e comincia adesso!

3 e 4 Aprile Sud della Tunisia

Sidi Bouzid é la città di Mohamed Bouazizi, un avvocato senza lavoro che per sopravvivenza vendeva merce usata per strada fino a quando la polizia gli ha sequestrato la bancarella; é a questo punto che questo ragazzo di neanche trent`anni si é cosparso di benzina dandosi fuoco davanti al palazzo municipale lo scorso 17 Dicembre. In quello stesso luogo dove tutto ha avuto inizio, da alcuni giorni c`é un sit-in permanente composto da giovani e giovanissimi che, armati di musica a tutto volume e dei loro sorrisi, ci hanno accolto al nostro arrivo. Così come a Kasserine anche nella città di Sidi Bouzid i ragazzi hanno esposto centinaia di lauree e diplomi affigendoli ai muri del governo locale in segno di protesta.

‘Give me freedom’, ‘tout le monde est fier de vous’ si legge sui muri bianchi di questa città. E come a Kasserine questi ragazzi non vogliono tornare a casa: rimangono a dormire in piazza nelle tende allestite accanto al palazzo del governo locale, lungo quel boulevarde che oggi ha preso il nome di Mohamed Bouazizi, ‘primo martire della rivoluzione’. Nessuno di questi ragazzi vuole tornare a quella normalità fatta di povertà e miseria, una situazione questa ancora più pesante nelle province del sud e lontane dalla capitale, a cui ci si é ribellati; nessuno di loro vuole tornare ad essere solo.

“Lavoro, dignità, vogliamo un futuro”, ci dice sorridendo un ragazzo che indossa un cappelino rosso con la scritta Che Guevara. Che cosa significhi per lui questo simbolo é difficile dirlo, ma una cosa é certa: il significato che danno quando parlano di rivoluzione é decisamente differente rispetto a quello che intendono le organizzazioni politiche classiche di sinistra. Parlando con chi ha appeso il proprio diploma ai cancelli del municipio di Sidi Bouzid emerge tutta la loro distanza da quella grammatica consunta di chi cerca di capire questi ragazzi con le ideologie del passato. Questi giovani, ribelli, parlano il linguaggio della politica, della rivolta e della rabbia che i quadri sindacali dell’UGTT, alcuni di loro addirittura parte del vecchio regime di Ben Ali, difficilmente comprendono.

“Stai zitto, qua si parla d`altro”: così un sindacalista ha liquidato un giovane disoccupato mentre tentava di spiegare le sue ragioni durante l`incontro che abbiamo avuto con la dirigenza locale della confederazione dei lavoratori di questa città.

Parole come ‘cambiamento’, ‘transizione’ e ‘rivoluzione’ sono sulla bocca di tutti quelli che incontriamo in questo viaggio. Ha senso parlare di transizione in Tunisia? Che cosa vuol dire la parola ‘cambiamento’? E ancora: che cosa significa continuare la rivoluzione? Questi tre mesi dopo il crollo del regime sono animati da un vivacissimo dibattito, carico di aspettative generali che, tuttavia, a Sidi Bouzid come a Kasserine si mescolano ai difficili problemi ancora irrisolti, dove le note romantiche della rivolta si trasformano in un disincanto pieno di rabbia.

Nel lasciare questa città ci dividiamo: alcuni di noi proseguono il viaggio verso Agreb per raggiungere il campo profughi tra Libia e Tunisia che ha ospitato, dall`inizio dei bombardamenti in Libia, oltre 150.000 persone. In questa piccola cittadina l`incontro con altri sindacalisti si sofferma sulle problematiche della migrazione, sulla laicità del Paese e sulle spinte integraliste che questa fase della rivoluzione sembra stia vivendo.

Partendo da Agreb ci salutano con una canzone che parla della moglie di Ben Ali e dei soldi che la sua famiglia ha rubato: ricchezza che deve ritornare al popolo tunisino.

Nel mentre altri di noi partono in viaggio verso Tunisi dove, davanti all`ambasciata italiana, contesteremo l`arrivo di Berlusconi previsto per oggi.

Siamo in Tunisia perché siamo dalla parte della rivolta e dei ribelli, così come siamo ai confini con la Libia ad accogliere i migranti, fino in fondo parte di questa rivoluzione araba. Abbiamo deciso di attraversare il Mediterraneo e di metterci in viaggio perché siamo di parte e contro la guerra, perché vogliamo essere complici della rivolta, perché siamo per la libertà.

4 aprile 2011 – Confine Tunisia Libia

Quando alla metà dello scorso febbraio sono arrivate le prime migliaia di persone di ogni nazionalità che hanno varcato il confine tra Libia e Tunisia, i tunisini hanno fatto una scelta: si doveva organizzare l’accoglienza.

Tutto ha avuto inizio dalle famiglie che abitano i villaggi limitrofi al confine che, vedendo il flusso di migranti, hanno dato una prima assistenza fornendo cibo, acqua e ospitalità nelle proprie case. E’ partita poi una gara di solidarietà anche dal resto della Tunisia, coadiuvata dall’esercito tunisino, per portare aiuti e medicinali. Per dieci giorni i tunisini hanno fatto fronte da soli ad un flusso di oltre 10,000 persone al giorno; solo dalla seconda settimana sono intervenute le organizzazioni internazionali..

Arriviamo a Choucha, il più grande dei quattro campi profughi situati nel sud est della Tunisia, a 8 km dal confine libico. La strada che divide in due la pianura semidesertica che vediamo davanti a noi è quella che porta in Libia: Tripoli è a soli 150 chilometri da qui. E’ sul lato a sud di questa strada che si sviluppa il campo, composto da migliaia di piccole tende in cui dorme chi ha trovato rifugio qui, da altre più grandi per i servizi collettivi e da alcune bancarelle che vendono ordinatamente cibo ed altri oggetti (vestiti etc..). Scorgiamo varie file ordinate in attesa per il cibo o per telefonare: a prima vista si percepisce l’assenza di tensioni, spesso difficilmente evitabili quando migliaia di persone si trovano in un solo luogo in condizioni di sofferenza.

Siamo ricevuti da un graduato tunisino che con disponibilità ci fornisce le prime informazioni sul campo: a tutt’oggi sono state accolte circa 150.000 persone di oltre settanta differenti nazionalità (subsahariani, asiatici, arabi etc ..), anche se nel primo periodo sono arrivati quasi esclusivamente egiziani..

Non ci sono libici per il semplice fatto che la mobilità alla frontiera è rimasta inalterata per libici e tunisini: se un libico arriva in Tunisia è libero di andare dove vuole come avveniva prima del conflitto interno. Per cui i libici che hanno varcato la frontiera sono andati a Tunisi o in altre parti del Paese.

L’ufficiale ci spiega come si svolge l’accoglienza: chi arriva al confine durante il giorno viene identificato dall’ufficio istituito dalle autorità tunisine e successivamente accompagnato in uno dei campi profughi. Se l’arrivo avviene di notte invece viene fatto dormire nel campo al confine per evitare il trasbordo senza la luce del sole.

Poi si cerca di unire le persone per nazionalità, al fine di migliorare la comunicazione e la solidarietà in un contesto di estrema difficoltà come questo, mentre le famiglie vengono indirizzate al campo d’accoglienza gestito dagli Emirati Arabi a pochi chilometri di distanza.

Le persone vengono poi accolte a seconda delle necessità. Chi vuole essere rimpatriato viene seguito dall’OIM (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) nel percorso per ottenere un trasporto nel proprio Paese d’origine, ed eventualmente gli vengono forniti dei documenti d’identità provvisori. Chi non vuole o non può tornare a casa, come nel caso dei moltissimi somali presenti, inizia invece le procedure perché gli venga riconosciuto lo status di rifugiato. Nessun rimpatrio avviene in maniera forzata.

Al campo, ci dice l’ufficiale, viene garantita l’assistenza sanitaria, cibo e acqua potabile.

Quando gli chiediamo perché stiano facendo tutto questo e chi coordina il tutto, ci risponde che “questo è territorio tunisino peraltro di frontiera, per cui è naturale fare del proprio meglio per gestire una situazione improvvisa creatasi in Libia”. Non sappiamo cosa rispondere quando ci dice “immagino che in Italia succederebbe lo stesso se scoppiasse la guerra in Francia”.

Naturalmente non tutto fila sempre liscio: le difficoltà ci sono, e ci vengono esplicitate da alcuni ragazzi somali ed eritrei che ci riferiscono che l’acqua è salata, che non sempre si mangia tre volte al giorno, che esiste del mercato nero che rivende gli aiuti umanitari nelle zone più remote del campo e che la loro condizione di rifugiati gli impedisce di tornare al loro Paese. Quando gli si chiede cosa facevano in Libia rispondono che lavoravano ed alcuni però ci fanno capire che vorrebbero cercare condizioni di vita dignitose in Europa.

Poco dopo un uomo africano che lavorava come interprete in Libia, improvvisa un piccolo comizio sostenendo che nel momento in cui il regime libico è entrato in crisi si è visto costretto ad andarsene perchè “è scattata la caccia al nero” e che non vede l’ora di poter tornare in Libia” anche se “solo Gheddafi poteva tenere le cose sotto controllo”. I legami tra Libia e paesi subsahariani sono sempre stati molto stretti nel bene e nel male.

Besim Ajeti, il funzionario di origine kossovara responsabile dell’OIM, conferma che i primi gruppi, che poi sono stati rimpatriati volontariamente, erano composti per la maggior parte da asiatici ed egiziani, e che a volte è necessario far pressione sui governi perché contribuiscano alle spese di volo dato che si tratta di migliaia di persone: Paesi come Ciad o Sudan non possono contribuire a causa delle difficili condizioni economiche in cui versano. Anche in questo caso ci viene confermato il fatto che non si svolgono rimpatri forzati e che molte persone ospitate dal campo lavoravano in Libia. Dichiara inoltre di non aver mai visto un’emergenza gestita in maniera così naturalmente ospitale come quella organizzata dai tunisini.

Per andare ad incontrare il responsabile dell’Acnur (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), passiamo davanti alle tre tende italiane della Protezione Civile, che arrivata per ultima ha dichiarato che “c’era già tutto”, per cui ha messo a disposizione le tende per fare eventuali assemblee e incontri. Quando ci passiamo davanti sono chiuse e vuote, ma gli stemmi e le bandiere della Protezione Civile sono ben visibili.

Presso la tenda dell’Acnur, dopo aver elogiato gli sforzi delle organizzazioni tunisine, il responsabile canadese conferma le modalità di accoglienza, e ci informa che attualmente sono circa 2000 i richiedenti asilo presenti nel campo in attesa di essere ospitati presso quei Paesi, purtroppo troppo pochi, disposti a inserirli nei programmi d’asilo.

L’Acnur si era preparato ad accogliere il flusso dei cittadini libici ma finora ne sono arrivati pochi, e comunque non si sono fermati al campo profughi, ma hanno proseguito il viaggio verso altre città tunisine. Inoltre da parte di chi arriva in Tunisia vengono fornite versioni contrastanti su quanto succede oltre confine: chi dice che la gente non può lasciare il Paese, chi dice che invece si può venire liberamente. Chi racconta di situazioni durissime, chi dice che non sta succedendo niente di grave. Per l’Acnur e le altre organizzazioni internazionali che non hanno operatori all’interno della Libia è difficile dire quale è la situazione reale, in ogni caso in coordinamento con i tunisini si è già pensato come far fronte ad un eventuale arrivo di massa.

Mentre camminiamo per il campo ci si avvicinano in diversi per raccontare la loro storia: quella delle migrazioni in questa parte del pianeta, che parla della ricerca della dignità e della libertà.

Ripartiamo con la delegazione del Forum Sociale Mondiale verso Tunisi dove domani si svolgerà la Conferenza Stampa finale dell’iniziativa. Noi torneremo sabato al campo profughi di Choucha con la Carovana Uniti per la Libertà non solo per portare gli aiuti raccolti in forma autorganizzata in Italia ma anche per dire insieme ai tunisini che “si può” fare di un emergenza reale un’occasione di accoglienza e dignità. La Tunisia lo ha fatto e lo possiamo fare anche noi.

Articoli a cura di Damiano, Paolo, Tommaso, Vilma


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