“Una rivoluzione ci salverà” di Naomi Klein

E’ disponibile in libreria “Una rivoluzione ci salverà. Perchè il capitalismo non è sostenibile”, edizioni Rizzoli, il nuovo libro di Naomi Klein, autrice di “No logo” e “Shock Economy”.

Il libro in continuità con i precedenti lavori inquadra come nella crisi e l’austerty che ne accompagna la retorica, le soluzioni proposte alla crisi climatiche ripropongono le stesse logiche che ne sono la causa, anche se presentate in chiave “green”.

Considerare i cambiamenti indotti dalla crisi climatica non una delle contraddizioni ma il paradigma con cui leggere il presente e la necessità di un cambiamento radicale ci accompagna durante la lettura di tutte le tre sezioni del libro tra approfondimento dell’analisi e il racconto delle esperienze “dei nuovi guerrieri del clima”, di chi resiste indicando l’alternativa.

Un testo che consigliamo, un “arsene” da utilizzare in questi mesi che ci accompagnano verso la costruzioni delle mobilitazioni a dicembre 2015 a Parigi in Francia in occasione della Cop21.

Perché il capitalismo non è sostenibile
Dall’autrice di no logo e shock economy, un attacco politico al cuore del capitalismo.

Il capitalismo non è più sostenibile. A meno di cambiamenti radicali nel modo in cui la popolazione mondiale vive, produce e gestisce le proprie attività economiche – con i consumi e le emissioni aumentati vertiginosamente – non c’è modo di evitare il peggio. Cosa fare allora? Il messaggio è dirompente: si è perso talmente tanto tempo nello stallo politico del decidere di non decidere, che se oggi volessimo davvero salvarci dal peggio dovremmo affrontare tagli così significativi alle emissioni da mettere in discussione la logica fondamentale della nostra economia: la crescita del PIL come priorità assoluta. “Non abbiamo intrapreso le azioni necessarie a ridurre le emissioni perché questo sarebbe sostanzialmente in conflitto con il capitalismo deregolamentato, ossia con l’ideologia imperante nel periodo in cui cercavamo di trovare una via d’uscita alla crisi. Siamo bloccati perché le azioni che garantirebbero ottime chance di evitare la catastrofe – e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle persone – rappresentano una minaccia estrema per quell’élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti dei nostri media.” La via d’uscita che intravede Naomi Klein non è una Green Economy all’acqua di rose, ma una trasformazione radicale del nostro stile di vita. “La buona notizia è che molti di questi cambiamenti non sono affatto catastrofici; al contrario, sono entusiasmanti.”
Tratto da www.rizzoli.eu

I gas tossici del capitalismo di Naomi Klein
L’anticipazione. Nel suo ultimo libro Naomi Klein va dritta al punto: il clima è la chiave per rovesciare il capitalismo. Un’ideologia estrema e fondamentalista che sta distruggendo l’umanitaI gas tossici del capitalismo di Naomi Klein

Non siamo riu­sciti a dimi­nuire le emis­sioni per­ché alla fine le cose che dob­biamo fare sono in con­tra­sto con il «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», e cioè con l’ideologia che domina da quando ten­tiamo di tro­vare il modo per uscire da que­sta crisi. Non riu­sciamo a sbloc­care la situa­zione per­ché le azioni che offri­reb­bero mag­giori pos­si­bi­lità di evi­tare la cata­strofe (e che andreb­bero a bene­fi­cio di un’ampia mag­gio­ranza) rap­pre­sen­tano una grave minac­cia per una élite mino­ri­ta­ria che tiene com­ple­ta­mente sotto con­trollo la nostra eco­no­mia, i nostri pro­cessi di deci­sione poli­tica e la mag­gior parte dei mezzi di comunicazione.

Forse il pro­blema non sarebbe stato insor­mon­ta­bile se fosse emerso in un momento sto­rico diverso ma per grande sfor­tuna di tutti noi, la comu­nità scien­ti­fica è giunta a for­mu­lare la sua dia­gnosi deci­siva sulla minac­cia cli­ma­tica pro­prio nel momento in cui le élite assa­po­ra­vano un potere poli­tico, cul­tu­rale e intel­let­tuale senza para­goni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scien­ziati, infatti, hanno comin­ciato a par­lare seria­mente di tagli dra­stici alle emis­sioni di gas serra nel 1988 — pro­prio l’anno in cui si pro­filò quella che si sarebbe chia­mata «glo­ba­liz­za­zione» e l’anno in cui fu fir­mato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa com­mer­ciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diven­tato poi, con l’inclusione del Mes­sico, l’accordo Nafta.

Quando gli sto­rici osser­ve­ranno in retro­spet­tiva i nego­ziati inter­na­zio­nali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due pro­cessi cru­ciali spic­care sugli altri.

Il primo sarà quello del nego­ziato mon­diale sul clima, che pro­cede avan­zando a stento, senza mai rag­giun­gere i pro­pri obiettivi.

L’altro sarà il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione delle grandi imprese, che invece avanza spe­dito di vit­to­ria in vittoria (…).

I tre pila­stri su cui si fon­dano le poli­ti­che di que­sta nuova era li cono­sciamo bene: pri­va­tiz­za­zione della sfera pub­blica, dere­go­la­men­ta­zione di tutte le atti­vità di impresa e sgravi fiscali alle mul­ti­na­zio­nali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.

Molto è stato scritto sui costi reali di que­ste poli­ti­che: l’instabilità dei mer­cati finan­ziari, gli eccessi dei super ric­chi, la dispe­ra­zione di poveri sem­pre più sfrut­tati, lo stato fal­li­men­tare di infra­strut­ture e ser­vizi pubblici.

Pochis­simo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato, sin dai primi momenti, ha sabo­tato in maniera siste­ma­tica la nostra rispo­sta col­let­tiva al cam­bia­mento cli­ma­tico, una minac­cia che si è pro­fi­lata pro­prio quando quella ideo­lo­gia era al suo apice.

Il pro­blema cen­trale è che l’abbraccio mor­tale eser­ci­tato in que­sto periodo dalla logica di mer­cato sulla vita pub­blica fa appa­rire le rea­zioni più ovvie e dirette alle que­stioni cli­ma­ti­che come un’eresia poli­tica. Per fare un esem­pio: come si può inve­stire mas­sic­cia­mente in ser­vizi pub­blici e infra­strut­ture a emis­sioni zero in un momento in cui la sfera pub­blica viene siste­ma­ti­ca­mente sman­tel­lata e sven­duta? I governi come pos­sono rego­la­men­tare, tas­sare e pena­liz­zare pesan­te­mente le aziende di com­bu­sti­bili fos­sili in un momento in cui qual­siasi mano­vra del genere viene liqui­data come un resi­duo di comu­ni­smo auto­ri­ta­rio? E, infine, come si può dare soste­gno e tutele al set­tore delle ener­gie rin­no­va­bili per sosti­tuire i com­bu­sti­bili fos­sili quando «pro­te­zio­ni­smo» è diven­tata una parolaccia?

Se fosse stato diverso, il movi­mento per il clima avrebbe ten­tato di sfi­dare l’ideologia estrema che sta osta­co­lando tante azioni sen­sate, avrebbe unito le forze con altri set­tori per dimo­strare che il potere delle cor­po­ra­tion, lasciato senza freni, rap­pre­senta una grave minac­cia per l’abitabilità del pianeta.

Gran parte del movi­mento per il clima, invece, ha spre­cato decenni pre­ziosi nel ten­ta­tivo di inca­strare la chiave qua­drata della crisi cli­ma­tica nella toppa rotonda del «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», alla ricerca infi­nita di solu­zioni al pro­blema che fos­sero for­nite dal mer­cato stesso.

Tratto da Il Manifesto 20 settembre 2014

Se cambia il clima tutto può cambiare di Beppe Caccia

This changes Everything. L’ultimo libro di Naomi Klein rovescia il tavolo «verde». Perché l’ambiente non è più «una» questione tra le altre ma la chiave per uscire dalla dittatura del capitalismo

Sono tra­scorsi quat­tor­dici anni dalla pub­bli­ca­zione di No Logo e sette anni da quella di Shock Eco­nomy. Non c’è biso­gno di sco­mo­dare la qab­ba­láh per pre­ve­dere che anche il nuovo libro di Naomi Klein, This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate (uscito il 16 set­tem­bre scorso per Simon & Schu­ster negli Stati Uniti e per Allen Lane in Gran Bre­ta­gna), lascerà il segno.

Testo ricco di potenti esem­pli­fi­ca­zioni, tra vicende in larga misura sco­no­sciute al grande pub­blico e con­nes­sioni illu­mi­nate da un lavoro d’inchiesta in pro­fon­dità, durato oltre cin­que anni con la deci­siva col­la­bo­ra­zione di ricer­ca­tori quali Rajiv Sicora e Ale­xan­dra Tem­pus, ci pro­ietta nel cuore di quella che non può essere con­si­de­rata una «que­stione» tra le altre, nep­pure se fosse la più impor­tante, ma il «frame», la cor­nice, in cui inse­rirle tutte.
Il «frame» fondamentale

Il punto di par­tenza è in sé evi­dente, anche se fac­ciamo di tutto per negarne la realtà e girarci dall’altra parte. «I dati non men­tono: le emis­sioni con­ti­nuano a cre­scere, ogni anno rila­sciamo in atmo­sfera una quan­tità mag­giore di gas serra dell’anno pre­ce­dente, … creando un mondo che sarà più caldo, più freddo, più umido, più asse­tato, più affa­mato, più arrab­biato». Klein indica, con ric­chezza di riscon­tri scien­ti­fici a comin­ciare dagli studi più com­pleti di Kevin Ander­son, l’orizzonte della cata­strofe pros­sima ven­tura, senza mai indul­gere nel «cata­stro­fi­smo» di certe pro­spet­tive mil­le­na­ri­sti­che, che hanno il solo effetto di pro­durre impo­tenza sociale. In que­sto senso il libro sca­valca i con­fini della bril­lante inchie­sta gior­na­li­stica e si pre­senta da subito come un testo emi­nen­te­mente politico.

All’origine della «cata­strofe» stanno i carat­teri salienti del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, rias­su­mi­bili nel per­si­stente pre­do­mi­nio del ciclo pro­dut­tivo legato all’impiego dei com­bu­sti­bili fos­sili, altro che «green eco­nomy», peral­tro e giu­sta­mente quasi mai citata. Sotto que­sto pro­filo, argo­menta la gior­na­li­sta e atti­vi­sta cana­dese rac­con­tando l’annuale con­fe­renza dell’Heartland Insti­tute, think thank di ultrà neo­li­be­ri­sti e nega­zio­ni­sti, la «destra ha ragione» quando afferma che ogni seria poli­tica per con­tra­stare il sur­ri­scal­da­mento glo­bale costi­tui­rebbe un «attacco alla libera eco­no­mia di mer­cato, una minac­cia per il capi­ta­li­smo, cavallo di Troia infar­cito di prin­cipi socio-economici marxisti».

Da qui si dipana lo strin­gente lavo­rio cri­tico di Klein, mirato a destrut­tu­rare, con effi­ca­cia, le cor­renti costru­zioni ideo­lo­gi­che in mate­ria, da lei ribat­tez­zate «magi­cal thin­king», pen­siero magico. Sotto i suoi colpi cade certo la geo-ingegneria, cioè la pre­tesa di risol­vere, ricor­rendo a inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che ancora più impat­tanti, gli enormi pro­blemi posti dal «glo­bal warming».

E nella figura di Richard Bran­son, pro­prie­ta­rio della Vir­gin Air­li­nes, ven­gono disve­lati i veri obiet­tivi di quei «mul­ti­mi­liar­dari che cer­cano di ricon­ci­liare il clima e il capi­ta­li­smo» sosti­tuendo il bene­vo­lente inter­vento pri­vato, spesso sol­tanto pro­messo, come nell’inchiesta si rivela con la spa­ri­zione di 3 miliardi di dol­lari, a qual­siasi inter­vento di rego­la­zione pub­blica trans­na­zio­nale. Ma, in pagine desti­nate a susci­tare sane pole­mi­che, Klein mette anche nel mirino le «Big Green», cioè le grandi asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, pro­ta­go­ni­ste negli ultimi vent’anni di un infrut­tuoso approc­cio, «mode­rato e ragio­ne­vole», alla nego­zia­zione sulle emis­sioni con governi e imprese mul­ti­na­zio­nali. Le loro moda­lità lob­bi­sti­che non solo sono risul­tate per­denti, ma – come nel caso di «Nature Con­ser­vacy» – nascon­dono anche diretti inte­ressi eco­no­mici, non pro­pria­mente puliti. Il più grande fondo ambien­tale degli Stati Uniti avrebbe infatti spe­cu­lato sull’estrazione di petro­lio e gas in un’area natu­rale del Texas loro affi­data con fina­lità conservative.
L’ora del «People’s shock»

Di fronte alla minac­cia incom­bente, Naomi Klein pro­pone il rove­scia­mento del para­digma della «shock eco­nomy», cioè la feroce appli­ca­zione delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste a par­tire da eventi social­mente trau­ma­tici, cata­strofi natu­rali o addi­rit­tura pro­vo­cate, in quello che invoca come «People’s shock», la lotta ai cam­bia­menti cli­ma­tici come «forza cata­liz­zante per una radi­cale e posi­tiva tra­sfor­ma­zione, per riven­di­care le nostre demo­cra­zie dalla cor­rut­tiva influenza delle cor­po­ra­tion, per bloc­care accordi com­mer­ciali che impo­ve­ri­scono, per inve­stire in infra­strut­ture pub­bli­che quali case e tra­sporti, per ripren­dersi la pro­prietà col­let­tiva di ser­vizi essen­ziali quali acqua ed ener­gia, per risa­nare un’agricoltura malata, per aprire i con­fini a migranti il cui tra­sfe­ri­mento è legato agli effetti cli­ma­tici, …, tutte che cose che aiu­te­reb­bero a porre fine a livelli grot­te­schi di ine­gua­glianza». Da que­sto punto di vista, supe­rando ogni approc­cio eco­no­mi­ci­sta, Klein sot­to­li­nea come «ciò che viene dichia­rato essere una crisi è invece una serie di fatti reali così come l’espressione di poteri e priorità».
Lo «spi­rito di Blockadia»

Ecco allora che la terza parte del volume rico­strui­sce, con un’ampiezza finora ine­dita, il pano­rama dei movi­menti sociali che in tutto il Pia­neta si bat­tono, affron­tando spe­ci­fici pro­getti «estrat­ti­vi­sti», con­tro i cam­bia­menti cli­ma­tici come essen­ziale con­se­guenza del modello capi­ta­li­stico impe­rante. La giornalista-attivista, con un’espressione mutuata dall’esperienza di lotta con­tro lo sfrut­ta­mento mine­ra­rio di Hal­ki­diki in Gre­cia, chiama tutto que­sto lo «spi­rito di Blockadia».

E descrive un vero e pro­prio ciclo glo­bale di con­flitti, para­go­na­bile per dif­fu­sione, capil­la­rità e radi­ca­mento a quello delle piazze di Occupy. Un ciclo che va dal New Brun­swick cana­dese dove i mem­bri delle comu­nità della First Nation sono riu­sciti a bloc­care i test sismici fina­liz­zati a un vasto e deva­stante pro­getto di frac­king, cioè di frat­tu­ra­zione idrau­lica del sot­to­suolo per l’estrazione di gas natu­rale, alla Mon­go­lia Interna cinese dove la ribel­lione di intere popo­la­zioni ha fer­mato i piani gover­na­tivi per l’apertura di enormi miniere a cielo aperto desti­nate allo sfrut­ta­mento dei gia­ci­menti car­bo­ni­feri locali.

Fino al movi­mento, che ha tra­ver­sato l’intero con­ti­nente nord-americano e di cui la stessa Klein è attiva pro­ta­go­ni­sta, con­tro la rea­liz­za­zione dell’oleodotto Key­stone XL: qui si è trat­tato di una sug­ge­stiva dina­mica ricom­po­si­tiva, attra­verso la quale, con pra­ti­che comuni di radi­cale disob­be­dienza civile, si è costruita una vera e pro­pria «pipe-line» che ha con­nesso lotte e sog­getti dif­fe­renti tra loro sulla dor­sale, tra le sab­bie bitu­mi­nose dell’Alberta e i ter­mi­nal per l’esportazione lungo le coste del Texas, inte­res­sata da progetto.

Ma ciò vale anche per la rico­stru­zione di una sfera pub­blica, coo­pe­rante ed egua­li­ta­ria, deter­mi­na­tasi nei mesi suc­ces­sivi al super-uragano Sandy nella metro­poli new­yor­chese o per la «ri-municipalizzazione» della pro­du­zione ener­ge­tica otte­nuta con il refe­ren­dum di Amburgo. Ovun­que – e il caso tede­sco tra poli­ti­che eco­no­mi­che ordo-liberali e la Ener­giewende verso le fonti rin­no­va­bili è par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo nella sua con­trad­dit­to­rietà – la «dura realtà del mondo in via di sur­ri­scal­da­mento si scon­tra con la logica bru­tale dell’austerity».

Per tanti altri aspetti, a par­tire dalle pagine dense di forti impli­ca­zioni per­so­nali dedi­cate al tema della «fab­brica della fer­ti­lità», rin­viamo alla discus­sione, quando uscirà, della ver­sione ita­liana del libro.

Que­sta prima let­tura lascia del resto diversi nodi aperti: quello rela­tivo al pro­filo dei sog­getti sociali impli­cati nel pro­cesso di cam­bia­mento radi­cale invo­cato come neces­sa­rio dalla Klein – per la quale è fon­da­men­tale, ma suf­fi­ciente?, il rin­vio al pro­ta­go­ni­smo delle popo­la­zioni indi­gene native e alla loro alleanza con i movi­menti sociali metro­po­li­tani -, così come quello delle forme stesse della tra­sfor­ma­zione, e ai dispo­si­tivi isti­tu­zio­nali da atti­vare – non può qui sfug­gire la con­trad­di­zione tra il rico­no­sci­mento dell’effettualità delle pra­ti­che comuni di alter­na­tive locali e il fre­quente richiamo a indi­spen­sa­bili macro-politiche di pro­gram­ma­zione («planning»).

Ma sarebbe inge­ne­roso pre­ten­dere che Naomi Klein scio­gliesse anche que­sti nodi.

Intanto, non si può che esserle grati per aver rimesso con i piedi per terra il tema del «glo­bal war­ming», per aver ricol­lo­cato la crisi eco­lo­gica nel con­te­sto della crisi glo­bale, per averci inco­rag­giato a «muo­verci in ter­ri­tori poli­tici non ancora car­to­gra­fati» con l’urgenza ad essa dovuta.

Tratto da Il Manifesto 20 settembre 2014

Naomi-Klein – foto di anya chibis
* dall’introduzione a «This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate»(New York – Lon­don, 2014). Per gen­tile con­ces­sione degli edi­tori, tra­du­zione di Bar­bara Del Mer­cato, edi­ting Mat­teo Bartocci.


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