Isis e la manovalanza maghrebina

Il Maghreb arabo è una delle aree geografiche incluse nell’annunciato califfato islamico dell’Isis. Tra i jihadisti takfiristi che combattono nelle fila di questo movimento, molti provengono dal Nordafrica.

Secondo l’Economist (agosto 2014) vi sono diversi jihadisti nordafricani che combattono in Siria; la Tunisia è il paese che “esporta” il maggior numero di jihadisti: 3000 “volontari”. Il Marocco, afferma il settimanale britannico, fornisce 1500 jihadisti e la Libia 556. Queste cifre sembrano sottostimate, soprattutto nel caso della Libia, che si è trasformata in una base di reclutamento e addestramento dei jihadisti maghrebini destinati a combattere in Siria, come ha ricordato un articolo apparso sul Guardian il 13 ottobre 2014.

Oggi i governi dei paesi del Maghreb – a eccezione della Libia, dove manca ormai uno stato vero – sono preoccupati dal dilagare del fenomeno Isis. La presenza dei gruppi jihadisti nel Nordafrica non è un fenomeno nuovo: al-Qaida nel Maghreb islamico, Aqmi, è operativa da tanti anni, ma in generale non ha mai considerato l’assalto al potere un suo obiettivo primario. L’Isis, invece, intende fondare un califfato islamico basato sul salafismo wahabita.

Le ambiguità che avvolgono il fenomeno Isis rendono difficile una previsione circa la sua estensione anche nel Maghreb, tuttavia esso potrebbe diventare un attore di instabilità nella regione, se non vengono circoscritti i fattori che favoriscono la sua espansione.

Uno degli elementi che hanno contribuito al dilagare dei conflitti sanguinosi in Iraq e in Siria – dove convivono diverse realtà religiose – è il settarismo confessionale. Molti gruppi jihadisti in Siria e in Iraq sono nati in seguito ai “sermoni” nelle moschee contro eretici sciiti, miscredenti cristiani ecc. Questo scenario non è riproducibile nel Maghreb, dove la stragrande maggioranza è sunnita, seguace di un islam misto tra ortodossia e sufismo; non bastano le prediche nelle moschee per far crescere l’Isis. I fattori che possono suscitare simpatia per l’Isis tra i maghrebini sono da individuare nella situazione socio-economica e politica: povertà, ingiustizia sociale, repressione, neo-colonialismo, islamofobia ecc.

In Libia il danno è già fatto: le milizie jihadiste spadroneggiano in diverse parti del paese, dove ormai anche l’Isis è presente. Di recente alcuni quotidiani algerini hanno parlato dell’esistenza di una vasta coalizione di movimenti jihadisti della Libia, della Tunisia e del Mali che hanno dichiarato lealtà all’Isis.

Ad oggi, l’Algeria è il paese dove il jihadismo non sembra attrarre la popolazione giovanile. Gli algerini non hanno dimenticato la devastante guerra civile degli anni ’90, durante la quale il movimento terrorista della Gia partecipò attivamente al massacro di diverse decine di migliaia di civili. Il jihadismo salafista sembra risparmiare il Marocco: il regno alawita è protetto politicamente dall’Arabia Saudita, mentore dell’ideologia salafita.

La Tunisia è a rischio. La cosiddetta “primavera araba” ha consentito agli islamisti di raggiungere le vette più alte del potere. Ed Ennahda – ramo tunisino dei Fratelli musulmani (Fm) – con grande astuzia politica è riuscito a rimanere in sella. La forte presenza sulla scena politica di Ennahda ha consentito ai salafiti di diffondersi nelle moschee “private” e nelle retrovie del paese. E questo è uno dei fattori che hanno favorito il diffondersi dell’ideologia jihadista e la partenza di migliaia di tunisini alla ricerca del “jihad e del martirio sulla via di Allah”. Inoltre, vi è una contiguità geografica con la Libia che ha consentito un’alleanza jihadista tra gli estremisti dei due paesi: Ansar a-sharia – che ha aderito al califfato dell’Isis – ha due rami, uno libico e l’altro tunisino.

L’Aqmi o l’Isis sono strumenti di controllo e di pressione in mano a chi ambisce a far entrare la regione nella propria sfera d’influenza religiosa. L’Arabia Saudita, culla del salafismo, è lì che manovra per sloggiare il Qatar alleato di Ennahda tunisina. Con il petrodollaro i sauditi comprano tutto ciò che è “acquistabile” nel Maghreb – e anche nell’Africa subsahariana – tranne in Algeria che, con la sua ricchezza in petrolio e gas e la sua tradizione militare, sfugge al controllo e alla pressione “geo-religiosa” del regno saudita.


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