Iraq e Rojava – Reportage di Ivan Grozny per Articolo21

Continuano i racconti tra Iraq, nei luoghi in cui opera Un ponte per …, e la Siria, nei territori della Rojava, scritti da Ivan Grozny e pubblicati da Articolo 21.

L’emergenza farmaci in Rojava
In Rojava c’è un embargo non dichiarato che impedisce a qualsiasi cosa di passare. Che siano farmaci, viveri e merci. O persone, s’intende. A questo però ci arriviamo dopo. Visitando gli ospedali presenti sul territorio ci si rende conto dei problemi. Manca quasi tutto. Dove c’è una sala operatoria funzionante, come a Derik, non c’è anestetico. Dove le strutture sono grandi e potrebbero ospitare molti pazienti, mancano i farmaci e le strumentazioni sono carenti. Una macchina per la dialisi su due è fuori uso, come nel caso dell’ospedale civile di Qamishlo. A Serekanye la situazione è anche peggiore. Oltre a queste carenze, manca anche personale specializzato, perché non dimentichiamolo qui si combatte ogni giorno e nessuno è escluso dall’impegno al fronte.

Poi c’è la questione legata ai traumi che i minori hanno subito. Qui c’è una generazione intera di giovanissimi che è nata sotto i colpi di mortaio o che ha visto i propri genitori e parenti uccisi o catturati. Sono traumi che non si dimenticano. La presenza di psicologi professionalmente formati rispetto a questo tipo di problematiche servirebbe eccome. E poi c’è il problema del sangue. Ci si affida a donatori, anche occasionali. Intendiamoci, la carenza di plasma in un territorio di guerra è una questione molto seria. E non è così poi che si risolve una crisi di questa entità, augurandosi che qualcuno e che fatalmente sia del gruppo sanguigno di cui c’è bisogno. Nonostante tutto, la vita va avanti. Le poche ostetriche presenti garantiscono assistenza a donne partorienti. Per fortuna creature continuano a nascere garantendo il ciclo della vita. Procurarsi i farmaci è molto complesso e spesso ci si affida a trafficanti che però non sempre consegnano ciò che hanno promesso e che si sono fatti profumatamente pagare. Quindi tutto ciò che arriva è analizzato prima di essere somministrato rallentando ancora i processi di intervento e somministrazione.

Molti dall’estero ne inviano ma la dogana turca e anche quella dell’Iraq del Nord di Barzani li bloccano, anche per mesi. Può capitare per questo che la gente si mobiliti per farli uscire dai magazzini di frontiera ma anche questo non basta. E capita che escano che sono o già scaduti o deteriorati. Passano solo quelli di associazioni che si costruito un credito da queste parti, come Un Ponte Per ad esempio. Sono loro che in questi anni hanno cercato una soluzione, una via praticabile per fare in modo che gli ospedali ricevano ciò di cui necessitano, ma non è stato un percorso facile. Anche la Chiesa Valdese ha dato il suo contributo e fatto arrivare parecchi medicinali. E’ chiaro che per quanto importante non si riesce a coprire il fabbisogno che sarebbe richiesto. Le realtà internazionali che riescono comunque nell’impresa, perché di questo si tratta, di rifornire le farmacie degli ospedali, non riescono però a coprire l’intero fabbisogno nonostante gli sforzi profusi. Molte persone anche per questo scelgono di lasciare questa terra. Varcano il confine con l’Iraq, altri tentano l’avventura attraversando interi stati a piedi, nella speranza di giungere in Germania o altri paesi europei. Lo abbiamo raccontato in precedenti articoli, finiscono nei campi profughi spinti dalla disperazione.

Non bisogna essere dei sopraffini analisti di geopolitica per capire che sta avvenendo anche demograficamente un cambiamento importante in questa regione. E che forse c’è più di qualcuno che avrebbe interesse a “svuotare” il Rojava. Per fortuna c’è anche chi sceglie di tornare, e lo fa. Con tute le difficoltà del caso. A Derbessye per esempio, uno dei luoghi di frontiera aperti sul confine con la Turchia si vedono centinaia di persone che tornano da dove erano scappati. I doganieri e la polizia turca fanno passare poche persone alla volta. La gente è costretta a file interminabili sotto un sole che dire cocente è poco. Chi può, sceglie sempre di lasciarli i campi profughi. A maggior ragione i curdi da quelli turchi. Mercoledì 5 luglio tra questa massa di persone c’erano donne e uomini di ogni età, visibilmente sfiancati dalle condizioni cui sono costretti. Appresso tutto ciò che possiedono, attendono pazientemente il proprio turno. Non tutti però ce la fanno. Un bambino di cinque anni è morto a causa del caldo. La madre ha chiesto invano aiuto ma non è stata ascoltata.

8 agosto

“Prima c’è stato Saddam Hussein poi le guerre del Golfo, ora Isis e le varie divisioni interne. Non c’è mai pace, per noi curdi”

“Quando nel 1991 Saddam ci ha costretto a fuggire, noi curdi siamo saliti verso Nord. Ricordo tutto di quei giorni. Eravamo in migliaia. Arrivati al confine con la Turchia vediamo gente che ci aspetta con il pane. Noi eravamo affamati. Era sei giorni che non toccavamo cibo. Mio padre proibì di accettarlo, noi non capivamo, eravamo affamati A distanza di giorni non hai idea di quanta gente si è ammalata o è morta. Quel pane era contaminato, avvelenato. Non c’è una notte che non mi tornano in mente quelle immagini. Noi di UPP facciamo supporto psicologico ai rifugiati, ma so che certe ferite, certi ricordi, non si spazzano via”. La storia di Herman è drammatica ed emblematica allo stesso tempo. Era solo un ragazzino, oggi ha trent’anni ma non smette mai di pensare a quanto ha vissuto.
“Saddam ha fatto uccidere undici persone della mia famiglia. Un giorno hanno bussato alla porta di casa nostra. Erano soldati. Chiedevano a mio padre se fosse interessato ad avere il corpo del fratello, mio zio. Lui non poté che rispondere di sì, era suo fratello, lo voleva seppellire degnamente. Fu costretto a pagare il prezzo delle tre pallottole che usarono per giustiziarlo. E mio padre pagò”.
Non è mai facile farsi raccontare certe storie perché chi ha la forza per farlo è costretto a rivivere certi momenti. E’ così anche per Herman. Lui ora lavora con UPP (Un Ponte Per) anche se in passato è stato impiegato anche per un’importante compagnia petrolifera. Non per molto tempo perché la cosa gli creava disturbo. “E’ possibile – afferma Herman – che il Paese sia così ricco e la sua gente così povera? Non ce la facevo proprio a lavorare per quelli lì”.
E’ un controsenso difficile da spiegare, in effetti. La storia della sua famiglia è la storia di tante che come la sua hanno dovuto affrontare improbe difficoltà e ripartire da zero in diverse occasioni. “Prima c’è stato Saddam Hussein – prosegue Herman – poi le guerre del Golfo, ora Isis e le varie divisioni interne. Non c’è mai pace, per noi curdi.”
Non si riesce a fermare Herman, un fiume in piena.
“Ti pare possibile che io possa rimpiangere Saddam? Eppure oggi c’è un Saddam a ogni angolo di strada, la vita non ha valore, non si può andare avanti così. Per questo molti sognano di fuggire, di andare negli USA o in Europa, perché così non è vita. Certo io oggi ho un lavoro, la mia famiglia ha di che mangiare e una casa ma siamo sicuri che questo durerà? Ricominciare daccapo; io ho vissuto per ben tre volte questa situazione, significa non avere davvero nulla a parte la T-shirt che s’indossa e pochi spiccioli in tasca. Non credo che avrei la forza di ricominciare da zero, ancora una volta”.
In Iraq ci sono circa tre milioni di profughi interni, gente che ha dovuto spostarsi da una parte all’altra del Paese per scampare alle barbarie e alla morte. Ci sono campi profughi come quello di Domiz oramai diventati vere e proprie città. Non è inusuale poi incontrarne di “informali” lungo qualsiasi arteria stradale, che ci si diriga a Nord verso Zouk, che si vada verso sud partendo da Dohuk o che ci si direzioni verso Semelka, al confine con la Siria. Luoghi dove la gente cerca rifugi di fortuna nella speranza di essere accolti nelle strutture ufficiali dove certo sono ben organizzati ma con la consapevolezza che da lì non si andrà più via. A poca distanza da Mosul se ne sta attrezzando uno enorme, consci del fatto che tra poco, non si sa bene quando, accoglieranno migliaia e migliaia di persone.

2 agosto 2015


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