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She Fighter a Padova - Incontro con Lina Khalifeh

Verso lo sciopero globale delle donne LOttoMarzo

Associazione Ya Basta Padova

In questo articolo si parla di:

  • 42/674 Donne
  • 4/674 Giordania

Sabato 4 marzo abbiamo incontrato a Padova alla Libreria delle donne Lina Khalifeh, fondatrice di She Fighter, all’interno del percorso verso lo sciopero globale delle donne l’8 marzo.
E’ stato un incontro molto partecipato per le emozioni oltre al racconto che Lina ha portato con sè, soprattutto nel traning collettivo di autodifesa fatto insieme.
Per cambiare la nostra realtà, qui in questa parte d’Europa che si chiama Italia, oltre a costruire solidarietà e a batterci perchè chi migra non muoia sulle frontiere, è necessario che il cambiamento avvenga anche sull’altra sponda, nei paesi di provenienza di chi migra. La libertà di muoversi si accompagna per essere veramente libera alla possibilità di restare dove si nasce o si vuole vivere. Lina fa parte di quelle donne e quegli uomini che provano a costruire un’altra realtà, in Medio Oriente e non solo.
Appoggiare, sostenere queste esperienze ci aiuta a costruire una nostra possibile comune alternativa.

Vi proponiamo il video-racconto della serata e l’intervista a Lina reallizzata da Il Barrito.

Mi chiamo Lina Khalifeh, ho 32 anni e vengo dalla Giordania. Ho iniziato questa attività She Fighter perché in realtà ho un background in arti marziali.
Quando ero all’università una mia amica si è presentata a lezione con delle ferite sul corpo perché era stata picchiata dal padre e dal fratello. Quando le ho chiesto perché non sei andata a denunciare il fatto alla polizia, lei mi ha detto “perché non possiamo farlo”. Dal momento che avevo questo back-ground di arti marziali ho iniziato a offrire questi training per le donne nella cantina dei miei genitori. Stavo cercando di fare questa cosa con l’obbiettivo di rendere le donne più consapevoli del loro ruolo e di far aumentare la consapevolezza dentro di loro e ho deciso di creare un’attività legata a questa idea nel 2012 chiamata “she fighter”, perché penso che sia importante aumentare la consapevolezza delle donne per cambiare la loro vita.

Quando ho cominciato tutti quanti mi dicevano che non sarei durata e che avrei chiuso subito perché le donne non sono interessate a nessuna attività legata al combattimento e nemmeno nell’aumentare la propria consapevolezza.
Ma io avevo una visione diversa perché pensavo che fosse necessaria e penso che le donne abbiano anche un altro ruolo nella società.

Da quando abbiamo aperto siamo riusciti a coinvolgere 12000 donne in varie parti del Medio Oriente. Abbiamo avuto molti problemi tra cui anche una causa che ci è stata rivolta dal marito di una delle donne che aveva deciso di partecipare a questa attività in quanto lui era avvocato. Lui l’ha denunciata perché sua moglie dopo aver partecipato al corso l’ha picchiato con le tecniche imparate.
All’inizio l’ho preso come uno scherzo però poi ho capito che era una cosa seria e ho dovuto munirmi di un avvocato per difendermi in tribunale. Un’altra sfida sono le donne della società che non vogliono uscire dalla loro comfort zone.

È facile capire di essere dipendenti dagli uomini e di non avere controllo sulle proprie azioni nella società quindi si è trattato anche di fare un lavoro sulla mentalità delle donne per far loro capire che possono avere un ruolo nella società e diventare libere avendo un’attività o un business per conto proprio. Adesso però le cose stanno migliorando, sono riuscita ad avere un supporto maggiore da parte delle donne e della società.

Un altro problema sono gli uomini che non vogliono concedere questa libertà alle donne: per loro il fatto che una donna possa raggiungere delle posizioni di potere nella società è una minaccia. Quindi ho dovuto far fronte sia a questo problema dei ruoli di genere nella società, ma mi sono dovuta anche difendere dal governo, dal momento che sono molto determinata e semplicemente non mi importa.

Quando qualcuno mi minaccia gli dico “fai in modo che la tua sia una minaccia veramente fondata, perchè farò in modo di difendermi legalmente fino in fondo” perché, se si vuole cambiare la società come donna, bisogna essere in grado di comprenderla a pieno, bisogna conoscere tutte le leggi del paese, le leggi economiche, perché nel momento in cui si viene denunciati bisogna essere pronti e rispondere subito. A prescindere dal genere è necessario essere intelligenti e combattenti per cambiare una società. Ma, al di là di tutte le difficoltà, abbiamo raggiunto dei buoni risultati. Abbiamo vinto un premio alle Nazioni Unite in un contest di donne nel business, abbiamo ottenuto anche un riconoscimento dal presidente degli Stati Uniti. Siamo stati invitati alla Casa Bianca, Obama ci ha ricevuti e ci ha ringraziati per il lavoro che abbiamo svolto. Abbiamo inoltre sviluppato degli accordi con Organizzazioni Non Governative come “Un Ponte Per…” per fornire questi training ai rifugiati dei campi profughi. Abbiamo operato nei campi profughi in particolare a livello degli operatori che poi a loro volta hanno diffuso quello che noi insegnavamo.

“She Fighter” è un progetto che riguarda non soltanto coloro che hanno i mezzi per pagarlo, ma anche quelli che non ce la fanno autonomamente.
Voglio condividere con voi una storia: una delle ragazze che ha preso parte al progetto “She Fighter” è stata attaccata da un uomo in un ascensore, quando l’uomo l’ha attaccata lei ha cercato di difendersi ma è stata presa dal panico, non riusciva a respirare ma è riuscita a farlo fuggire dall’ascensore perché ha provocato un grande clamore. A quel punto la donna si è arrabbiata e l’ha inseguito fino in strada e ha cercato l’aiuto di altri uomini per aiutarla a catturare l’uomo che aveva cercato di violentarla. Alla fine sono riusciti a catturarlo e la donna ha cominciato a prenderlo a pugni in faccia in strada finché lui non ha cominciato a piangere chiedendo per piacere di smetterla di picchiarlo. A quel punto la polizia e ha preso entrambi. Lei l’ha citato per tentato stupro, mentre lui per averlo picchiato in strada. Alla fine lei ha vinto la causa e lui è finito in prigione per 3 anni per tentato stupro.

Potrei raccontarvi tantissime storie di donne che sono riuscite a difendersi per aver partecipato al progetto “She Fighter”.
In un altro caso una donna, che aveva seguito il corso per 1 anno, una volta stava tornando a casa, un uomo l’ha seguita ed è riuscito ad avvicinarsi al punto da metterle una mano sulla spalla. Di conseguenza lei si è girata ed è riuscita a farlo scappare. Lei non ha pensato a cosa stesse facendo, ha agito d’istinto.
A volte una piccola azione può mostrare a chi cerca di farti del male che tu sei pronta a rispondere. Lei ha detto che non ha veramente pensato a quello che stava facendo, ha semplicemente reagito perché voleva difendersi dalla violenza dell’uomo. Ci sono tantissime altre storie di tentativi di stupro e di molestie in cui le donne reagiscono. Spesso prevale la retorica delle donne vittime di questi abusi, ma in realtà le donne non sono vittime, hanno la forza, solo che non sanno di averla perché nessuno insegna loro a tirarla fuori.
Quando si entra in una palestra e si comincia a seguire questi corsi le donne realizzano di avere una forza interiore.
Io ho lottato per tutta la mia vita in vari tipi di arti marziali, ho visto con i miei occhi che le donne che si allenano e che combattono hanno una maggior consapevolezza e autostima di se stesse rispetto alle donne che non si allenano.
Persino le donne timide possono diventare donne con grandi aspirazioni.
Si tratta soprattutto di agire sulla loro mentalità facendo loro capire che si tratta di tirare fuori la forza e nel momento in cui lo si fa, le donne riescono a cambiare. Ma se pensano di essere deboli diventeranno deboli.

Non si tratta soltanto di cambiare l’educazione della società, perché non si riuscirà mai a fermare il problema della violenza solamente attraverso l’educazione. E’ necessario invece agire sulle ragazze fin da quando sono piccole e dire loro che nel futuro possono essere quello che vogliono e diventare delle leader. Le cose cominceranno a cambiare quando parleremo alle ragazze come parliamo ai ragazzi.
Succede molte volte che i ragazzi, per esempio nelle università, compiono abusi sulle ragazze per cui si dice che i paesi e le società hanno bisogno di più educazione.
Ma gli abusi continuano a verificarsi anche in società sviluppate dal punto di vista culturale, non succede soltanto nei paesi in via di sviluppo ma dappertutto.
Alla radice del problema c’è il fatto che non cresciamo e non educhiamo i bambini così come educhiamo le bambine e le ragazze. Ai ragazzi viene insegnato che possono prendersi rischi anche quando falliscono, ma alle ragazze diciamo di non provare nemmeno perché prendersi rischi è una cosa per i ragazzi.
Se invece insegniamo alle ragazze a non mollare e a non arrendersi, anche quando le cose non vanno bene, queste ragazze poi riusciranno a prendersi delle responsabilità maggiori nel corso della loro vita. Non sentiranno la necessità di chiedere scusa per quello che sono, non diranno che non sono abbastanza qualificate per una determinata posizione e non diranno: “questo non è un lavoro per donne ma è un lavoro solo per uomini” perché le abbiamo educate in modo tale da ritenere questo tipo di retorica normale. Ad esempio in Giordania la percentuale di donne che ottiene un dottorato o che ha un’ educazione di buon livello è piuttosto alta, ma molte di queste donne in realtà non vogliono lavorare, anche se avrebbero i titoli per ottenere grandi posizioni.

Il problema, dal mio punto di vista, è culturale.
“Non devo riparare la mia macchina tanto ci penserà mio fratello, non devo imparare alcune cose perchè tanto ci penserà mio padre”. Per tutta la nostra vita ci è stato insegnato a dipendere dagli uomini.
Io ho dovuto affrontare questo problema perché a “She fighter” ho dato lavoro solamente a delle donne.
Per come è la società adesso ho dovuto trovare una soluzione per dare lavoro a più donne: ne ho assunte un numero maggiore, ma ho ridotto le loro ore lavorative.
Questo ha permesso di venire a lavorare anche due volte a settimana per massimo due o tre ore. Il sistema ha funzionato molto bene perché così facendo possono continuare a lavorare, possono mantenere la loro vita sociale e possono anche occuparsi della loro famiglia.
Questo sistema ha funzionato al punto che adesso abbiamo 15 impiegate donne a “She Fighter”, anche se ne sarebbero bastate 2 per quel lavoro.

Adesso stiamo cercando di espanderci in Arabia Saudita, e anche li le donne saranno piuttosto pigre e dovremo trovare un sistema per farle lavorare. Se si vuole veramente cambiare le cose, bisogna prima adattarsi alle condizioni che si trovano e poi cominciare con cambiamenti piccoli.
All’inizio pensavo che “She Fighter” fosse solo una palestra per autodifesa, ma il progetto è diventato molto più grande di così.
È stato un viaggio meraviglioso in cui ho imparato tantissimo e non penso che sarei riuscita a raggiungere così tanto rimanendo all’interno dell’università a seguire corsi di business. L’educazione è sicuramente molto importante ma penso che l’esperienza lo sia di più. Molte persone ritardano la realizzazione dei progetti, magari dopo un master o un dottorato, io penso invece che sia più importante iniziare subito, imparare tramite l’esperienza. Io ho solo una laurea triennale ma molti studenti di dottorato o di laurea magistrale vengono a studiare il mio progetto. Tuttavia, nel campo della finanza, ho commesso anche io più di qualche errore grazie ai quali ho capito ed imparato ad interagire con le istituzioni.

La Giordania ospita circa 2 milioni di rifugiati che scappano dalla guerra in Siria. Voi di Shefighter avete lavorato anche con loro?

Si, abbiamo lavorato molto con le rifugiate soprattutto in collaborazione con l’associazione Un ponte Per. Le donne siriane sono molto esposte agli abusi sessuali e anche a stupri di gruppo nei campi profughi. Con le donne siriane bisogna porsi in modo diverso poichè provengono da una situazione di guerra. In particolare è diverso il modo di vedere le donne e i loro diritti; pertanto non si può incolparle per essere cresciute con questa mentalità. Per fare un esempio concreto, uno dei problemi più grandi sono i matrimoni precoci. E’ diffuso nei campi profughi il fenomeno di far sposare le bambine di 11/12, persino 9 anni con uomini adulti in cambio di soldi. Frequentemente poi accade che l’uomo che le ha comprate le abbandoni dopo una settimana ai confini del campo, dove rischiano di morire dissanguate o di contrarre malattie. Nella cultura siriana il matrimonio precoce è molto frequente, se non sono 12 anni sono 14. E’ molto difficile parlarne e il modo migliore per fargli cambiare idea non è attaccarli, ma cambiare approccio. Allora non dico loro che stanno sbagliando ma gli chiedo: “Cosa ne pensi dei matrimoni precoci?” Alcuni sono d’accordo, altri no, ma questo apre comunque un dibattito e a volte si riesce a far cambiare idea a una o due persone. In certi casi l’hanno fatto per talmente tanti anni o le donne stesse si sono sposate a quell’età e lo considerano normale. Alcune ragazze vorrebbero che le cose cambiassero all’interno dei campi profughi, alcune non parlano perchè sono state oppresse. E’ un momento delicato perchè sono povere e, venendo dalla guerra, farebbero di tutto per avere dei soldi. La situazione è difficile nei campi per rifugiati, ma stiamo facendo progressi.

Quali sono state le difficoltà più grosse che hai riscontrato rispetto alla cultura e alla mentalità nell’aprire la tua attività in Medio Oriente? Perché noi siamo abituati a pensare che in Medio Oriente sia sempre più difficile.

Penso che le donne forti non piacciano in nessuna cultura. All’inizio si può anche dire: ”facciamole provare”, ma si sa che falliranno; dopo un po’ alcune ce la fanno e riescono ad effettuare un cambiamento di mentalità in alcune persone. Più si ottiene successo più si trova resistenza, quindi quello che è veramente difficile non è tanto iniziare e trovare un’idea ma mantenerla nel tempo. Ho dovuto fare denuncia contro un sacco di uomini che hanno cercato di minacciarmi ma la cosa peggiore e sbagliata è smettere di credere nei propri valori. Ero sempre dalla Polizia, una volta sono andata da loro e ho riportato un caso di uomo che cercava di minacciarmi e il poliziotto mi ha identificata subito e mi ha detto: ”tu sei quella della scuola “Un Ponte Per…”?” e io ho risposto “Sì e allora?” . Il poliziotto mi ha chiesto perchè fossi lì e perchè non mi difendessi da sola. In quel caso non mi stava prendendo veramente sul serio; quando hai una palestra per l’autodifesa puoi difenderti da sola ma bisogna essere intelligenti, evitare di finire in prigione e di agire per istinto, usare il cervello, specialmente in una cultura che è patriarcale.
Quindi sì, ci sono molte sfide ma ci sono anche molte cose positive.

Con il lavoro che fate come “She Fighter”, che tipo di donne vengono? Vengono più ragazze giovani, ragazze vecchie, quale è il tipo di composizione?

Abbiamo diverse donne di diverse età, la maggior parte sono giovani studentesse o teenagers, molte di loro hanno avuto delle situazioni difficili.

Tu consideri le tecniche di autodifesa più come uso della violenza o piuttosto come la capacità di sentire il proprio corpo?

Sicuramente il corpo e la mente sono legati tra di loro, e anche l’anima. Quindi se la mente è forte anche il corpo è forte e viceversa.
Per diventare veramente forti bisogna incominciare a lavorare almeno su una delle due cose; magari qualcuno può non avere una personalità molto forte, ma in questi casi si può intervenire sull’allenamento del corpo. Questo è qualcosa che si dice in qualsiasi arte marziale: il legame tra il corpo, la mente e l’anima è fondamentale. Questo è il motivo per cui con “She Fighter” non ci occupiamo solamente dell’allenamento fisico, ma offriamo anche una consapevolezza legata alla violenza, allo stupro, agli abusi. Quindi quello che faccio è creare leaders, perché non voglio essere l’unico leader. Per fare questo bisogna credere nelle persone che vengono. Siamo riusciti ad allenare circa 150 leaders e ci stiamo espandendo molto velocemente grazie anche al supporto ricevuto.

Quanto influiscono la religione e la politica in quello che fate? Lei considera la sua attività anche un business. Non riesco a capire, quanto c’è di business e quanto c’è di azione sociale?

In Europa, a causa degli attacchi terroristici che sono avvenuti recentemente, molti legano la religione e il terrorismo, ma in realtà viviamo in una società musulmana dove l’80% delle persone è musulmano e cristiano e vive in maniera pacifica tra di loro. Per noi quindi la religione è un aspetto totalmente normale, ma tra di noi non ne parliamo,specialmente se si ha un amico cristiano, possiamo vivere tranquillamente, senza problemi. A “She Fighter”, per esempio, accettiamo qualsiasi donna a prescindere dall’appartenenza religiosa e questo include anche la scelta di mettere il velo oppure no, che è appunto una scelta personale. Nessuno si occupa delle scelte degli altri. La causa della recente situazione è appunto il protagonismo dell’ISIS, il legame tra ISIS e Islam. Loro in realtà non sono musulmani, sono semplicemente degli estremisti che vogliono solamente distruggere il mondo. Io penso che anche mettere il velo sia una scelta personale, e anche nel mondo cristiano le suore mettono il velo, semplicemente in modo diverso. Le donne d’altra parte hanno coperto il proprio corpo già da molto tempo e questo punto è una cosa che riguarda moltissime culture, ma ora con il problema del terrorismo, questo viene legato ad esso. In realtà stiamo parlando di movimento politici, che hanno come unico obiettivo quello di creare odio. Questa è la mia opinione personale e la mia esperienza, ma a “She Fighter” non si parla né di politica né di religione perché accettiamo donne di qualsiasi provenienza. Abbiamo avuto addirittura un uomo transessuale, che da uomo è diventato donna; quando lei si è unita a “She Fighter” ne abbiamo parlato tra di noi e abbiamo deciso che noi ci occupiamo di accrescere la consapevolezza di tutte le donne, incluse le donne transessuali. E questa donna ha continuato a venire perché si sentiva a casa. Questa è la nostra politica. Non ci occupiamo di religione o di politica, ma solo di donne. Abbiamo anche avuto casi, ad esempio, di donne che si trovavano per la prima volta a dover interagire con donne transessuali e standoci insieme hanno iniziato a cambiare le loro idee al riguardo. Ma quello che i media occidentali dicono e diffondono sulla questione crea solo più odio. D’altra parte il Ku Klux Klan tempo fa stava facendo le stesse cose. Spesso questi gruppi giovano dell’aiuto dei governi e d’altra parte uccidono anche persone musulmane, uccidono tutti e per questo dovremmo fare attenzione, quando ci espanderemo in Iraq.

Per quanto riguarda l’altra domanda, il mio business lo chiamo business ibrido, cioè si tratta di un progetto legato al business ma che vuole lavorare per i cambiamenti sociali. Non si può sempre dipendere dai finanziamenti, perché altrimenti il proprio business non sarebbe sostenibile nel tempo e in quei casi, quando finiscono i finanziamenti, il progetto deve finire. Nel momento in cui gioviamo invece del contributo delle persone, questo è più sostenibile nel tempo, ed è un modello nuovo, ibrido. E questo vale anche per le grandi multinazionali che investono molti soldi nel cambiamento sociale. Ma nel nostro caso, in realtà, il rapporto è diverso, ci occupiamo dei cambiamenti sociali e cerchiamo di farne un business. È un modello più sostenibile nel tempo e che permette di coinvolgere una platea più grande.


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