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Continua incessante l’arrivo attraverso la rotta balcanica, insieme alla rotta mediterranea, di migliaia di uomini e donne che vogliono entrare in Europa, spinti da conflitti, distruzioni e feroce immiserimento. Un esodo, un flusso destinato a interagire in profondità con il vecchio continente.
Analizzare la vastità e profondità di quel che sta accadendo, i legami con i conflitti geopolitici, sulle sponde dell’euromediterraneo fino all’Asia e all’Africa subsahariana, è quanto mai necessario per costruire nel cuore dell’Europa un’azione politica all’altezza della realtà.
Come contributo abbiamo pensato di dedicare le prime tre serate della Rassegna Oblò a fornire spunti e riflessioni non scontate su tre temi che rappresentano cause ed effetti di quello che stiamo vivendo: conflitti, cambio climatico, costuzione della paura sociale. Con lo stesso spirito di strumentarci per agire, vi proponiamo integralmente uno scritto di Etienne Balibar, che ci pare particolarmente stimolante, apparso in parte nel Manifesto di alcuni giorni fa.
La cronaca e le notizie ci consegnano un continuo mutamento degli scenari parziali, ma i temi posti nell’approfondimento di Balibar ci pare possano tracciare spunti d’analisi utili in profondità.
Buona lettura e siete tutt@ invitati alla prima serata di Oblò a Padova il 12 ottobre.
Un conflitto oltre le frontiere di Etienne Balibar
15 settembre
Mentre i ministri dei ventotto paesi Ue non sono riusciti a mettersi d’accordo sull’attuazione del piano di ripartizione proposto dalla Commissione europea (piano del tutto insufficente visto il ritmo al quale stanno arrivando ormai i rifugiati, che arrivano in particolare dalla Siria) , è senza dubbio arrivato il momento di rendersi conto dell’entità dell’avvenimento storico a cui deve far fronte la "comunità" delle nazioni europee, e delle contraddizioni che questo avvenimento ha messo in luce. Estendendo a tutta l’Europa il pronostico che la Cancelliera Angela Merkel ha formulato — "questi avvenimenti cambieranno il nostro paese" — bisogna dire: cambieranno l’Europa. Ma in che senso? La risposta non è ancora scritta, anche se potrà esserlo rapidamente. Stiamo entrando in una zona di fluttuazioni brutali, dove dovremo dar prova di lucidità e determinazione.
Quello che sta avvenendo è un allargamento dell’Unione e della stessa costruzione europea. Ma, a differenza dei precedenti allargamenti, voluti o accettati dagli stati, preparati da negoziazioni e sanzionati da trattati, questo è imposto dagli avvenimenti nel quadro di uno "stato d’emergenza" e non c’è unanimità. Più che per gli allargamenti del passato, quindi, andrà incontro a difficoltà e provocherà scontri politici, di cui il risultato non è garantito. Soprattutto, questo allargamento è paradossale, perché non è territoriale (anche se porta con sè implicazioni territoriali) ma demografico: ciò che "entra in Europa" (e che, per una parte importante, dovrà esservi "integrata") in questo momento non sono nuovi stati, ma uomini, donne e bambini. Sono dei cittadini europei virtuali. Questo allargamento, essenzialemente umano, è anche morale: è un allargamento della "definizione" di Europa, dell’idea che ha di se stessa fino agli interessi che difende e agli obiettivi che si pone.
La congiunzione di tutte queste dimensioni ci condurrà alla nozione di un allargamento politico, destinato a "rivoluzionare" i diritti e gli obblighi dei paesi membri. Può fallire, ma allora la costruzione europea stessa avrà poche possibilità di resistere (e di certo certi precedenti allargamenti saranno sconfitti). Per questo motivo molti oggi in Europa (compresa la sua classe politica) parlano di momento di verità.
È evidente che la situazione materiale e morale creata dall’afflusso dei rifugiati dalla Turchia, dalla Grecia, dalla Macedonia, dall’Italia verso i paesi del centro e nord dell’Europa (in particolare Germania e Svezia, le nazioni oggi più accoglienti) attraverso l’Ungheria, l’Austria, la Francia, sia "eccezionale". Ma perché parlare di stato d’eccezione, di emergenza, nozione carica di terribili significati giuridici e politici, che evoca momenti in cui il quadro istituzionale della vita sociale vacilla e l’identità collettiva dei popoli trema? Evocherò almeno tre ragioni.
La prima è che, de facto, un pezzo importante della "costituzione" europea (uno dei suoi pilastri) ha smesso di funzionare: gli accordi di Schengen completati dai regolamenti di Dublino. Questa sospensione era già chiara da quando il governo tedesco ha dichiarato che non avrebbe applicato ai rifugiati siriani la regola dell’immatricolazione nel paese di arrivo in seno alla zona Schengen. La decisione del 13 settembre di chiudere la frontiera con l’Austria, a causa del superamento delle capacità di accoglienza della Germania e della cattiva volontà degli altri paesi europei (che rifiutano di prendere la loro parte di fardello o l’accettano solo verbalmente e a lungo termine, come la Francia) , non cambia nulla, al contrario. Mostra che l’apertura e la chiusura delle frontiere interne dell’Europa è oggetto di decisioni arbitrarie degli stati e che la libertà di circolazione è sospesa.
La seconda ragione è che il "problema migratorio" dell’Europa è completamente intrecciato allo stato di guerra del Medioriente, che si estende dall’Afghanistan all’Africa del Nord (con epicentro in Siria ed Iraq) , che costituisce la fonte principale dell’afflusso dei rifugiati. Si tratta di una guerra civile generalizzata, in parte creata e costantemente aggravata da interventi esterni, di una crudeltà e capacità di distruzione senza equivalenti dopo la seconda guerra mondiale nella nostra regione del mondo, che ha acquisito una dinamica propria. Non potremo fermarla nell’immediato, (soprattutto non con interventi militari come quelli praticati da Stati Uniti, e più modestamente da Francia ed Inghilterra). Il numero delle vittime e dei rifugiati che causa aumenterà. L’esodo, momentaneamente concentrato negli stati "tampone" (Turchia, Giordania, Libano, Tunisia), sta cominciando a travolgerli e minaccia di farli esplodere. Lo spazio investito da questo contagio ingloba tutta l’Europa (ivi compreso beninteso attraverso i rischi di diffusione del terrorismo, che non possono interferire con la "polizia" dell’immigrazione, nell’immaginazione e nella realtà).
Infine, possiamo parlare di stato d’emergenza poiché, più di altri fattori di acuto conflitto ideologico e politico in Europa (come le politiche d’austerità), la crisi migratoria sta spezzando il consenso sui "valori" constitutivi dello stato democratico, che porta a una messa a confronto dell’Europa con se stessa, suscettibile di assumere forme violente. Tutti questi aspetti sono evidentemente legati tra loro.
Vogliamo aggiungere qualche nota sull’azione della Cancelliera federale tedesca, Angela Merkel, dopo l’esplosione della crisi a fine d’agosto. Ha svolto un ruolo determinante nella definizione del carattere politico degli avvenimenti. È lei, in effetti, cercando di conservarne il controllo (che può scapparle), che ha dichiarato lo stato di emergenza prendendo misure "unilaterali". Soprattutto lei - attraverso l’accoglienza di una immensa parte di vittime di guerre e persecuzioni - ha posto la questione di una rifondazione dei nostri stati di diritto, escludendo qualsiasi "tolleranza" nei confronti delle correnti xenofobe e razziste. Coloro che, come me, deplorano assolutamente il modo in cui la Cancelliera Merkel ha pilotato l’imposizione a tutta l’Europa delle politiche di austerità, in particolare l’umiliazione e l’espropriazione della Grecia, devono oggi saper riconoscere il valore della sua azione e dirlo. Questo prova la complessità della realtà politica, che non si lascia leggere attraverso gli occhiali dell’ideologia. Naturalmente, Merkel non ha agito da sola: ha interpretato lo slancio di solidarietà di una parte significativa della società tedesca (affrontando il rischio di scontrarsi con un’altra parte che, ora, comincia a farsi sentire). Alcuni suppongono che, così facendo, abbia difeso gli interessi dell’economia tedesca, che ha bisogno di rinforzo demografico e di forza lavoro qualificata (abbondante tra i rifugiati), andando contro i pregiudizi xenofobi e ricordandosi dei benefici avuti dal suo paese dall’apporto di altri rifugiati. Possiamo immaginare che «Merkiavelli» (come l’ha chiamata Ulrich Beck) abbia visto un’occasione per ribaltare l’immagine di inumanità che le era stata affibiata dopo la "soluzione" della crisi greca. Ma queste spiegazioni non bastano e sono soprattutto incapaci di cogliere l’effetto oggettivo della decisione di Merkel, che trasforma i dati del problema "costituzionale" in Europa e intensifica il conflitto latente sull’"identità" europea, sia dal punto di vista dell’assetto sociale che della vita culturale. Forse la Merke (io ne dubito), agendo "in coscienza", non ha compreso subito fino a dove la sua decisione l’avrebbe portata (e noi con lei): ma l’importante è che sia arrivata a un punto di non ritorno di cui deve adesso assumere le conseguenze e difenderne il significato.
Hic Rhodus, hic salta.
Si tratta di quattro ordini di conseguenze di primo piano.
Le prime riguardano la gestione delle frontiere dell’Europa, ma anche il loro tracciato e il loro rapporto con la sovranità nazionale. L’accordo di Schengen si basava sul presupposto ambiguo che è possibile "mettere in comune" la funzione di sorveglianza delle entrate e delle uscite dallo spazio comunitario, continuando però al tempo stesso a considerare sovrani gli stati, responsabili degli individui che si trovano sul "proprio" territorio, dal punto di vista della sicurezza o della protezione.
Dall’altro canto, l’Unione europea – attraverso gli allargamenti selettivi – aveva cercato di mantenere contemporaneamente sia l’idea che ha vocazione a incorporare tutte le nazioni europee (almeno all’Ovest di una certa linea di "civilizzazione", di cui si vede tutta la fragilità con la guerra ucraina) che l’idea che questa membership comporta delle "condizioni di adesione" da rispettare (più o meno rigorosamente). Di qui la situazione di enclave anacronistica nella quale si trovano oggi alcuni paesi dell’ex Jugoslavia (come la Serbia e la Macedonia) che subiscono con forza la pressione dei movimenti dei rifugiati e costituiscono le "porte di accesso" al cuore dell’Europa. Questa situazione non è tenibile dal punto di vista sia securitario che umanitario: o i paesi balcanici verranno incorporati all’Europa come membri a pieno titolo, beneficiando del suo aiuto, oppure l’Europa dovrà abolire tutte le procedure di sicurezza comunitarie, nel momento in cui diventano un problema centrale del suo "governo" .
Ma più in generale (come ho avuto occasione di dire altrove) apparirà che l’Europa "non ha" delle frontiere nel senso classico: né frontiere "federali" né frontiere delle nazioni costituenti. Piuttosto, è essa stessa una "frontiera" di nuovo tipo, proprio alla globalizzazione, un Borderland o un complesso di istituzioni e di dispositivi di sicurezza estesi su tutto il territorio, per "regolare" i movimenti di popolazioni (in particolare quelli che avvengono tra il "Nord" e il "Sud"), in modo che può essere più o meno discriminatorio, violento, più o meno deciso e controllato democraticamente. (1)
Di qui la seconda serie di conseguenze: quelle che riguardano i regimi migratori che l’Europa cerca di limitare, ma soprattutto di definire, giuridicamente e politicamente, evitando di apparire come un "continente/immigrazione", che è anche una maniera (negativa) di definire se stessa. Lascerò da parte, malgrado il suo interesse, la controversia sollevata dal canale Al Jazeera, quando ha deciso di proibire l’uso del termine "migrante" (2).
Nella polemica in corso sull’instaurazione delle quote per la ripartizione dei rifugiati in Europa, la Germania e la Commissione europea si aggrappano con tutte le forze alla distinzione tra "rifugiati" e "migranti economici". È facile capirlo: lo fanno per conciliarsi l’opinione pubblica (favorevole ai primi e contraria ai secondi) e per mantenere una differenza di trattamento amministrativo per chi arriva, senza la quale, apparenentemente, l’unica soluzione sarebbe di decidere l’abolizione delle frontiere ("Tur and Tor Offnen", scritto dalla Frankfurt Allgemeine Zeitung) (3).
Non dirò che questa distinzione non ha senso, la prima categoria definisce uno statuto di diritto internazionale, che non riguarda la seconda. (4)
Non c’è difatti uno "statuto del migrante" nel mondo attuale, solamente un trattamento "biopolitico", come direbbe Foucault. Ma è chiaro che la differenza è socialmente arbitraria, poiché la mondializzazione "selvaggia" tende a trasformare le zone di pauperizzazione in zone di guerra e reciprocamente. Gli abitanti fuggono in massa zone di morte, correndo il rischio di perdere tutto. Soprattutto, bisogna chiedersi con quali mezzi, che non siano violenze su grande scala, l’Unione europea potrà attuare una politica di "rinvio" degli indesiderabili, esclusi dall’"accoglienza". Questo non ha funzionato a livello individuale, da decenni, e non ha nessuna possibilità di funzionare a livello di massa. Dove quelli che saranno mandati via come migranti "economici" finiranno tra le reti dei campi di concentramento, trasformandosi in "rifugiati". Un altro dei meccanismi perversi dello stato d’eccezione.
All’opposto delle condizioni di rifugiato o di migrante "indesiderabile", sballottati tra frontiera e frontiera o da campo a campo. quali prospettive si aprono per coloro che guerre o miseria cacciano verso l’Europa e che arrivano a pericolo della vita (lasciando molti di loro nel cammino?
Che prospettiva deve offrire loro l’Europa?
Non può essere che l’accesso alla cittadinanza europea. Bisogna quindi che questa nozione prenda corpo o esca finalmente dal limbo nel quale è relegata dal rifiuto degli stati di aprire la strada alla "sovranazionalità". Dicendo che stiamo assistendo a un allargamento demografico della Ue, volevo appunto indicare questa prospettiva.
Deve essere una prospettiva regolata, normalizzata, ma è ineluttabile.
Tutti sanno che i rifugiati che arrivano adesso non se ne andranno: non tutti, di sicuro, e non subito. Se non vogliamo creare una nuova popolazione di declassati, esposti a tutte le persecuzioni e alle devianze della marginalità (pensiamo ai Rom, ai "clandestini") o una popolazione di stranieri relegati in un esilio interno per varie generazioni (pensiamo ai campi palestinesi in MedioOriente), bisogna aprire ampiamente la possibilità di integrazione, cioè lavoro, diritti sociali e diritti culturali eguali. Ma la chiave di tutti questi diritti e del loro "legittimo" possesso, contro tutte le stigmatizzazioni razziste, è la cittadinanza ( o come ho detto anche in altre occasioni la concittadinanza). (5)
Visto che il problema è nuovo su questa scala e in questo genere di circostanze (non identificabile a quello degli sfollati della Seconda Guerra Mondiale nè a quella dei rifugiati ungheresi dopo il ’56, ne a quella dei "pieds noirs" franco-algerini dopo il ’62 ..), bisogna inventare nuove modalità e nuove prospettive di accesso alla cittadinanza, specificamente europee, che per questo stesso fatto ne modificano la definizione.
Idealmente, ne individuo due: la prima sarebbe di istituire, accanto all’accesso alla cittadinanza europea attraverso la strada della cittadinanza nazionale, come esiste oggi (uno è "cittadino europeo" perchè è cittadino francese, tedesco, polacco, greco ...), un accesso diretto a una "nazionalità federale".
Era quello che esisteva (ma per scelta personale) in uno Stato federale come l’ex-Jugoslavia.
Se questa proposta appare troppo sovversiva o rischiosa (perchè contribuirebbe anche a singolarizare i rifugiati e i loro discendenti, mentre nel tempo stesso la nazionalità resta la "carta d’entrata" nella cittadinanza europea per la maggioranza di noi), resta un’altra posibilità, senza dubbio migliore : consiste, attraverso una direttiva da imporre agli Stati membri, nel generalizzare lo "jus soli" in tutta l’Ue (prendendo esempio da quello che hanno appena decretato i Greci). (6)
In questo modo, l’avvenire dei figli dei rifugiati sarà garantito dall’Europa, e sappiamo che questa prospettiva è uno dei fattori più potenti di integrazione per gli stessi genitori.
Questo fa parte della "dignità" e della "sicurezza".
Bisognerà evidentemente combinare tutto questo con il riconoscimento generalizzato della doppia nazionalità, perchè la proposta ai rifugiati di integrarsi non implica - salvo per le ossessioni degli xenofobi militanti - che si domandi loro di rompere con la loro storia e i loro paesi d’origine, anche se ne sono stati strappati in maniera traumatica.
In ultimo, la decisione "unilaterale" della Germania di accogliere dei rifugiati, creando lo stato d’emergenza che ci porta all’allargamento "demografico", per l’Europa intera comporta un quarto ordine di "conseguenze" : delle conseguenze economiche strutturali. Si insiste sulle prospettive di trasformazione del mercato del lavoro, che è vero sono importanti, ma si comincia anche a parlare del costo dell’accoglienza e dell’integrazione dei rifugiati, degli aiuti comunitari necessari perché alcuni paesi europei possano far fronte ai compiti di salvataggio, registrazione e trasferimento (prima di tutto la Grecia, l’Italia, ed in generale i paesi del Sud del Mediterraneo, che non sono i più ricchi, o che sono stati le principali vittime delle politiche d’austerità) , e delle sovvenzioni che costituiscono la logica contropartita dell’imposizione delle "quote di accoglienza" (è per questo, logicamente, che l’Ungheria che rifiuta energicamente le quote non vuole neanche le sovvenzioni, ma accetta i fondi di soccorso).
Bisogna dire che, in realtà, l’apertura dell’Europa ai rifugiati implica a breve termine un cambiamento di dottrina e di politica economica che contraddice il suo "regime" attuale. In cifre assolute, i rifugiati rappresentano soltanto una proporzione minima della popolazione europea (l’equivalente di una piccola nazione in sè). Ma non hanno niente e saranno ancora a lungo a carico di alcuni comuni, regioni, paesi che non sono preparati o fanno fronte essi stessi a reali difficoltà economiche e finanziarie.
Si vuole suddividere egualmente (o equitativamente) un carico comune tra dei paesi che le politiche d’austerità e di concorrenza hanno spinto verso l’ineguaglianza.
Bisogna quindi rovesciare la tendenza neoliberista, aumentare il budget della Ue in modo significativo (a carico comune, budget comune) , avviare un "piano" di intergrazione su scala europea (alloggi, educazione, lavoro), promuovere la solidarietà tra stati e costruire in comune una nuova società, vegliando in particolare a che l’integrazione dei rifugiati sul mercato del lavoro non avvenga a detrimento dei "vecchi europei", o inversamente - ricetta sicura per disordini sociali e la xenofobia. Ma questa pianificazione deve esigere (o accellerare) a sua volta dei cambiamenti di politica monetaria, dei progressi nella costruzione "federale", che possono essere decisi e applicati democraticamente, oppure imposti tecnocraticamente. In quest’ultimo caso falliranno, nell’altro hanno una speranza di riuscire. Cominceremo a capire che ci vuole un’altra Europa, perché l’Europa possa far fronte ai compiti che, improvvisamente, incombono, un’Europa che si "trasformi", o che cambi forma politica.
Nulla di tutto ciò, certamente, potrà farsi in modo spontaneo, né all’unanimità. Lo stato di emergenza migratorio ha fatto esplodere, sotto i nostri occhi, le contraddizioni intra-europee mascherate, bene o male, dall’ideologia dell’"interesse comune" e delle "norme comuni". La prospettiva di un nuovo allargamento suscita violente resistenze, che ora dopo ora si stanno trasformando in un "fronte del rifuto" politicamente organizzato. La questione maggiormente discussa - a causa del blocco che provoca nei meccanismi "misti" della governance europea, divisa tra una forma pseudo-federale che dona poteri estesi alla Commissione (al meno in apparenza) e una forma confederale in cui l’istanza decisionale è il Consiglio dei governi, dove anche i piccoli stati hanno un diritto di veto - è il fossato che si è scavato (o rivelato) tra la "vecchia Europa»" (all’Ovest) e la "nuova" (all’Est): sono state proposte ogni sorta di spiegazioni economiche, culturali, storiche, politiche, che hanno tutte qualche pertinenza. (7)
Ma nei fatti, il rifiuto arriva anche dall’Olanda o dalla Danimarca, non solo dalla Polonia o dalla Slovacchia, per non parlare della Gran Bretagna o persino della Francia, che ha accettato solo tardivamente l’idea di quote vincolanti, sempre cercando di minimizzarne gli obblighi. In realtà, la divisione maggiormente rivelatrice, quella che separa davvero due "Europa", o le due politiche per l’Europa, attraversa tutti i paesi, anche se con proporzioni e rapporti di forza diversi.
È certo da sottolineare ("miracoloso" (8), dicono alcuni giornali) che gran parte della popolazione tedesca sia accorsa in soccorso dei rifugiati siriani, in una convergenza significativa con la decisione della Cancelliera. Ma è altrettanto significativo che i capi della Csu, pilastro della sua coalizione di governo e "partito-fratello" della CDU che lei dirige, si siano apertamente desolidarizzati dalla sua politica, arrivando fino a concludere una alleanza con Viktor Orban, il capo di governo ungherese che erige una barriera ai suoi confini Sud, e che la Frankfurter Allgemeine Zeitung abbia pubblicato un editoriale per dichiarare che "i paesi dell’Est hanno ragione" (9). Dopo la chiusura "provvisoria" della frontiera con l’Austria, gli stessi si rallegrano apertamente per il "passo indietro senza precedenti" della cancelliera, anche se non arrivano fino a chiederne le dimissioni .
In realtà, ciò che è in via di costituzione in Europa è un fronte transnazionale del rifiuto dei rifugiati, di cui i gruppi apertamente razzisti e violenti sono soltanto la punta estrema e dove l’argomentazione oscilla tra l’utilitarismo ("non abbiamo il posto") e l’idelogia identitaria (un afflusso di mussulmani minaccia di snaturare l’Europa cristiana, o laica, a seconda dei paesi) e securitaria (nacondono tra loro degli jihadisti). Senza dubbio assisteremo per la prima volta a ciò che finora era sempre fallito a causa di rivalità e nazionalismi: l’emergenza di un "partito" xenofobo, anti-immigrati e antirifugiati, unificato in Europa.
In reazione a ciò, l’Europa della solidarietà non potrà evitare una lotta politica determinata, fondata su nuove alleanze, una lotta che comincia con la condanna intransigente delle violenze contro i migranti, e prosegue con la rivendicazione delle condizioni di accoglienza, che ho evocato prima. È questa lotta, se verrà veramente fatta, che "trasformerà" più profondamente l’Unione europea. Ma la vittoria non sarà facile, è il meno che si possa dire.
Da una prospettiva francese, dove il Fronte nazionale ha contaminato tutta la vita politica, possiamo dire che sarà molto difficile. Ma è ineluttabile, poiché la "causa dei rifugiati", se non fa passi avanti nell’opinione pubblica e nelle istituzioni, rischia di indietreggiare molto in fretta e brutalmente.
Questa lotta ha quindi bisogno di una forte legittimità: in ogni paese e in tutta l’Unione. Ma la sola legittimità che, in ultima analisi, sia in misura di invalidare e di neutralizzare le resistenze, è la legittimità democratica diretta.
Bisogna essere stupefatti, da questo punto di vista, che il Parlamento europeo non abbia ancora deciso di occuparsi della questione dei "rifugiati" e della "sfida migratoria europea" o che non ne sia stato costretto dal capi di Stato dei governi, o dalla Commissione. A tal punto che bisogna chiedersi se queste istanze vogliano veramente attuare con le forme della politica che indicano.
Perchè senza dubbio si può essere sicuri che un dibattito al Parlamento europeo darebbe alle forze xenofobe, che vi sono rappresentate, l’occasione di esprimersi , di unirsi, di misurare la loro influenza al di là dell’estrema destra.
Ma si può essere ugualmente sicuri che si comincerebbe con una cacofonia, se non addirittura con un regolamento di conti tra partiti e paesi ...
Ma sarebbe anche l’occasione per l’Europa della solidarietà e i suoi dirigenti di portare al livello politico i sostegni di cui beneficerebbero nell’opinione pubblica, di tracciare delle linee di demarcazione necessarie, e di proclamare l’unità delle volontà dei popoli europei nella costruzione del futuro.
Aggiungiamo, per tornare un’ultima volta all’aspetto "tedesco" (o piuttosto euro-tedesco) della questione attuale che questa legittimazione democratica è il solo modo per permettere alla Germania di passare dall’iniziativa unilaterale, imposta dalle coircostanze e favorita dalla sua "moralità" (10), alla solidarietà comunitaria, senza la quale, malgrado la sua ricchezza e determinazione, non potrà riuscire.
È storicamente decisivo che, per la prima volta dopo la riunificazione degli anni Novanta, la Germania abbia di nuovo bisogno della solidarietà di altri paesi europei, a cui non può "dettare" niente: questa volta, però, non ne ha bisogno solo per se stessa, ma nell’interesse di tutti. È una caratteristica del "momento europeo" eccezionale che stiamo vivendo.
Tratto da blogs.mediapart.fr
Foto di copertina di Carlos Latuff che sarà a Bologna il 7 ottobre e a Padova il 12 ottobre con Oblò
[1] Etienne Balibar : L’Europe-frontière et le « défi migratoire », Vacarme, octobre 2015 (version anglaise : « Borderland Europe and the Challenge of Migration » https://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/etienne-balibar/borderland-europe-and-challenge-of-migration)
[3] 11-09-2015.
[4] Danièle Lochak : http://bondyblog.liberation.fr/201506100001/daniele-lochak-il-faut-supprimer-le-dispositif-dublin-mais-il-faut-surtout-supprimer-frontex/#.Vfbt8pcYF2A[5] E. Balibar : « Sujets ou Citoyens ? Pour l’égalité » (1984), réédité dans Les frontières de la démocratie, La Découverte, Paris 1992.
[6] 19 Etats européens sur 33 ont aujourd’hui adopté le ius soli : http://eudo-citizenship.eu/docs/ius-soli-policy-brief.pdf
[7] Voir par exemple Jacques Rupnik : « Migrants : L’autre Europe face à ses contradictions », Le Monde 02.09.2015.
[8] « Das deutsche Wunder », par Josef Joffe, Die Zeit, n° 37, 12 septembre 2015.
[9] « EU-Flûchtlingspolitike : Osteuropa hat recht », par Karl-Peter Schwartz, FAZ, 11-09-2015.
[10] Giannis Varoufakis : “On German Moral Leadership” – English version of op-ed in Sunday’s FAZ, http://yanisvaroufakis.eu/2015/09/14/on-german-moral-leadership-english-version-of-op-ed-in-sundays-frankfurter-allgemeine-zeitung/