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Perché #BlackLivesMatter potrebbe trasformare il dibattito sul clima di Naomi Klein

Cosa farebbero i governi se le vite della gente di colore contassero come le vite dei bianchi?

Associazione Ya Basta Padova

In questo articolo si parla di:

  • 119/700 Ambiente
  • 43/700 Climatechange
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Il penultimo giorno del recente vertice sul clima delle Nazioni Unite, svoltosi a Lima, in Perù, degli attivisti hanno realizzato un die-in, simulando di morire, davanti al Centro Congressi del vertice della COP. In quel modo rendevano onore alle migliaia e migliaia di vite perse in disastri e conflitti, aggravati dai cambiamenti climatici. E facevano anche qualcosa di piú: si univano simbolicamente alla sempre piú generalizzata rivolta #BlackLivesMatter (#LeViteNereImportano), che ha paralizzato centri commerciali e trafficati incroci dagli USA alla Gran Bretagna.

“Per noi l’unica alternativa alla morte é la giustizia climatica”, afferma Gerry Arances, coordinatore nazionale per il Philippine Movement for Climate Justice.

Di fronte alla sistemica violenza dello stato, i coraggiosi manifestanti che gridavano "non posso respirare!" e "le vite dei neri sono importanti”, rivendicavano un principio centrale rispetto al valore di ogni essere umano, partendo dal più disprezzato. Sostenere il loro urgente appello per la giustizia e la trasformazione del sistema penale è di vitale importanza.

Ma cosa c’entra #BlackLivesMatter, e l’indiscutibile principio morale che rappresenta, con il cambio climatico? Tutto.
Se fossero stati degli amercani bianchi e benestanti ad essere lasciati per giorni in uno stadio gigantesco senz’acqua e cibo, dopo l’uragano Katrina, perfino George W. Bush avrebbe preso sul serio la questione del cambio climatico. Allo stesso modo, se a rischio di scomparire fosse l’Australia e non gran parte del Bangladesh, il primo ministro Tony Abbott sarebbe molto meno disinvolto nell’affermare che la combustione del carbone è "buona per l’umanità". E se fosse stata la mia cittá, Toronto, ad essere distrutta anno dopo anno dai tifoni che impongono evacuazioni di massa, e non Tacloban, nelle Filippine, possiamo essere certi che il Canada non avrebbe fatto della costruzione di oledotti per per le sabbie bituminose il fiore all’occhiello della propria politica estera.

La realtà di un ordine economico costruito sulla supremazia bianca è il significato scritto tra le righe ed appena percepibile della nostra risposta alla crisi climatica, un significato che ha bisogno di essere reso pubblico e visible.

Ho recentemente avuto occasione di incontrare un meteorologo belga, che non manca mai di fare un appunto sul cambio climatico nei suoi bollettini meteorologici. Ciononostante, mi ha detto, i suoi spettatori rimangono inamovibili. “Le persone qui pensano che con il riscaldamento globale, il tempo a Bruxelles sarà simile a quello di Bordeaux, ed il fatto li rende felici”. Ma se cosí fosse, Haiti diventerebbe simile all’inferno; e non è possibile provare allegria per la prima ipotesi senza, alla fine, essere attivamente indifferenti di fronte alla seconda.

La desiguale distribuzione degli impatti del cambiamento climatico non é dunque una semplice conseguenza sottovalutata del fallimento nel controllo delle emissioni di CO2. Si tratta piuttosto del risultato di una serie di decisioni politiche che i governi dei paesi ricchi hanno preso - e continuano a prendere - con piena cognizione di causa ed ignorando le strenue opposizioni (degli altri stati).

Ricordo vividamente il momento in cui la centralità di tale razzismo irruppe sulla scena mondiale. Fu esattamente cinque anni fa, durante il famigerato vertice sul clima di Copenaghen. Al secondo giorno del meeting trapeló un documento che dimostrava come i governi stavano per accordare come limite al riscaldamento globale l’aumento di temperatura di due gradi Celsius (3,6 gradi Fahrenheit). Ma la meta di temperatura - promossa nalle nazioni piú ricche dell’Europa e del Nordamerica - probabilmente non potrebbe salvare dalla distruzione alcuni piccoli stati insulari situati al livello del mare. In Africa, la temperatura meta si tradurrebbe in un disastro umanitario a grande scala. Chiaramente, la definizione di “pericoloso” associata al cambiamento climatico é ampiamente connessa con il valore profondamente diseguale che viene attribuito alle vite umane.

A Copenhagen, quando si diffuse il contenuto del documento, i delegati africani si riversarono immediatamente per gli asettici corridoi del centro conferenze gridando a squarciagola: “non moriremo in silenzio!”. Le somme irrisorie che i paesi ricchi si erano impegnati ad apportare per il finanziamento sul clima furono tacciate come “insufficienti perfino per comperarci le bare”. Le vite della gente di colore importano e valgono, dicevano questi delegati, nonostante quel vertice corrotto si comportasse come se non fosse cosí.

Il disprezzo verso alcune vite, legato a motivi razziali, non si impone solo verso l’esterno, tra stati diversi, ma anche all’interno degli stessi paesi - e forse nel modo piú drammatico negli USA. Ho ricordato questo meccanismo mentre leggevo di Akai Gurley, il ventottene afroamericano disarmato, a cui spararono “accidentalmente” e morí il mese scorso, nell’oscura rampa delle scale di un condominio di case popolari a Brooklin. Come l’ascensore fatiscente, anche l’impianto elettrico non era stato riparato nonostante le lamentele degli abitanti. E quando l’abbandono di un’istituzione pubblica verso gli afroamericani si intreccia con la paura armata di un poliziotto verso i neri, il risultato é fatale.

Quando il super-uragano Sandy arrivó a New York due anni fa, una combinazione di forze simile mostró la propria faccia brutale, in scala molto maggiore. I servizi di acqua potabile e di energia elettrica dei condomini decrepiti non funzionarono per settimane intere. Ma la cosa peggiore fu che la paura di questi edifici oscuri giocó chiaramente un ruolo per cui i funzionari del governo e le agenzie di assistenza non visitarono gli abitanti ammalati ed anziani, abbandonandoli in grattacieli di appartamenti senza gli approvvigionamenti di base, per un tempo troppo lungo.

Ma Sandy non fu l’unico esempio di questa tossica combinazione fra le condizioni atmosferiche avverse e la negligenza dovute ad aspetti segreganti. “A George Bush non importano i neri”, fu la celebre frase di Kanye West, durante un Telethon organizzato nel 2005 a favore delle vittime dell’uragano Katrina. Quella tormenta mostró in modo ostentoso che i peggiori impatti del clima estremo seguono un parametro razziale con una precisione devastante. La razza contribuí a determinare chi rimaneva abbandonato sopra il proprio tetto, chi era tacciato come “saccheggiatore”, a chi si sparava in strada e di chi sarebbe stata la casa demolita e mai piú ricostruita.

Nozioni velate di superioritá razziale muovono ogni aspetto della non-risposta al cambio climatico. Il razzismo ha permesso di distogliere sistematicamente lo sguardo dai disastri climatici per piú di vent’anni. E’ ció che ha permesso i peggiori impatti sulla salute legati all’estrazione, la lavorazione e la combustione di combustibili fossili - dal cancro all’asma - scaricati sistematicamente sui territori indigeni ed in quartieri dove vive la gente di colore. Secondo una ricerca, un impressionante 21.8% di bambini che vivono nelle case popolari del Bronx, a New York soffrono di asma, una cifra tre volte maggiore che l’indice negli appartamenti privati. L’asfissia di questi bambini non é immediatamente letale, come quella che ha rubato la vita a Eric Garner. Ma é altrettanto reale.

Se ci rifiutiamo di parlare francamente dell’intersezione tra la razza ed il cambiamento climatico, possiamo stare sicuri che il razzismo continuerá ad orientare la maniera in cui i governi dei paesi industrializzati risponderanno a questa crisi fondamentale. Il razzismo si esprimerá nel rifiuto costante di dare un serio finanziamento climatico ai paesi piú poveri, per proteggersi dal clima estremo. E si manifesterá nella spietata mano dura contro i migranti, le cui case e territori diventeranno invivibili.

Secondo Alicia Garza, una delle fondatrici di #BlackLivesMatter, lo slogan non ha il proposito di affermare che le vite dei neri valgono piú di altre. Piuttosto che,nel l riproporre il ruolo fondante del razzismo contro i neri, dice a tutti che “le vite dei neri sono importanti per la tua liberazione. Visto l’impatto sproporzionato della violenza statale sulla vita dei neri, comprendiamo che quando gli afroamericani in questo paese saranno liberi, i benefici saranno estesi e trasformeranno l’intera societá in generale”.

Ció che ci trasmette il cambiamento climatico é che questo é vero anche in scala globale, rispetto a tutte le speci viventi, poiché ci dirigiamo verso livelli di riscaldamento incompatibili con qualunque cosa assomigli ad una societá organizzata. Questo non é una coincidenza: una volta che abbiamo permesso a quelli che prendono le decisioni di razionalizzare il sacrificio di alcune vite, é molto difficile che si fermino.

Perché se l’attuale gerarchia dell’umanitá basata sulla razza non viene combattuta, possiamo essere certi che i nostri governi continueranno a procastinare, ridefinendo i termini di quanto è “pericoloso” per permettere il sacrificio di un numero di persone sempre maggiore, di culture, linguaggi, paesi sempre piú antichi. Al contrario, se le vite dei neri sono importanti - e lo sono -, allora il riscaldamento globale é giá un allarme’incendio e le vite che ha stroncato sono giá troppe.

Lo slogan adottato a Lima, che é stato usato anche in alcune delle proteste di Ferguson, è stato "siamo dei semi". In tale contesto significa che le persone morte negli uragani, dalle Filippine al Corno d’Africa, rappresentano qualcosa piú di una tragedia. La loro perdita, se li vogliamo riconoscere, se li vogliamo piangere completamente, ha il potere di aiutarci a costruire un mondo nuovo e piú sicuro. E bisogna proprio farlo..

(Versione ridotta. Il testo integrale in inglese é pubblicato su The Nation,

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