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In questi giorni piovosi, in cui i disastri causati dal dissesto idrogeologico, dovuto ai fenomeni – tutt’altro che naturali – dell’abbandono di gran parte del territorio (quello montano e appenninico in particolare), dell’irregimentazione forzosa dei corsi d’acqua, delle simultanee cementificazione (con conseguente impermeabilizzazione) ed erosione speculative dei suoli, si susseguono in molte zone del nostro paese, capita ovunque di sentir ripetere la più ovvia banalità “le stagioni non sono più quelle di una volta”.
Dietro questa semplice frase si nasconde una verità incontrovertibile: il cambiamento climatico non solo è realtà, ma continua a trasformare drammaticamente l’ambiente in cui viviamo. Di questo si è nuovamente occupato il quinto rapporto sul surriscaldamento globale presentato pochi giorni fa dalla IPCC, il panel scientifico delle Nazioni Unite con sede a Ginevra (link della sintesi). Il rapporto, dopo aver analizzato come i cambiamenti climatici in corso possano diventare irreversibili, si conclude dicendo che, se si vuole invertire una tendenza destinata a esiti catastrofici, è necessario arrivare entro questo secolo alla drastica riduzione, tendente allo zero, dei gas serra, quelli prodotti in gran parte dalla combustione di combustibili fossili e dalla deforestazione.
A prescindere dal fatto che, per motivi di equilibri politici, tipici degli organismi internazionali, si sia prudenzialmente usata solo due volte la parola “pericolo” sostituendola con il più soft “rischio”, lo scenario disegnato dal rapporto, che racchiude gli studi approvati dal gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), è molto chiaro: “se le emissioni causate dalla combustione di carbon fossili non saranno ridotte quasi a zero nel corso di questo secolo, per mantenere le temperature sotto un certo livello, il mondo potrebbe essere bloccato su una strada che avrebbe impatti irreversibili sulle persone e l’ambiente. Parte di questo impatto, come l’innalzamento del livello del mare, l’oceano più caldo e acido, lo scioglimento dei ghiacciai e ondate di calore più frequenti e intense, sono già visibili.”
È uno scenario che non consente più ambiguità.
Centrare il problema, connettere la lotta al cambiamento climatico con la lotta per la conquista di un nuovo modello di relazioni basato sulla giustizia sociale e ambientale, dovrà essere al centro delle mobilitazioni verso il vertice COP21 che si svolgerà nel dicembre prossimo in Francia.
Intanto dal vertice APEC di Pechino, sotto il “cielo azzurro” garantito dal governo cinese con lo spegnimento di centinaia di fabbriche e la chiusura delle attività produttive nell’arco di 200 km per pulire l’aria della metropoli, che normalmente ha tassi di smog trenta volte superiore alla concentrazione massima di polveri sottili considerata accettabile dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, giunge la notizia dell’accordo Cina-Usa in materia di riduzione delle emissioni.
Le agenzie di stampa hanno battuto la notizia che “le due potenze responsabili del 45% delle emissioni totali di anidride carbonica sono pronte a collaborare per salvare l’ambiente e prendono impegni precisi per la loro riduzione.” La Cina, per la prima volta, dichiara l’obiettivo di raggiungere il picco delle emissioni nel 2030 e di cominciare a tagliarle da quel momento in poi. Entro quella data, ha annunciato Xi, le cosiddette fonti energetiche pulite, come il solare e l’eolico, potrebbero rappresentare il 20 per cento della produzione totale cinese. Gli Usa, da parte loro, confermano che entro il 2025 taglieranno le loro emissioni del 26-28%.
Per alimentare un dibattito che deve nutrirsi di punti di vista differenti e non scontati, ospitiamo qui la traduzione del primo commento all’accordo di Naomi Klein, autrice di This Changes Everything , che ne sottolinea l’utilità soprattutto nel contesto nordamericano, per i movimenti sociali e per le dinamiche governative.
Potremmo intanto sintetizzare così il nostro primo giudizio: tra ipocrisia e interesse.
Ipocrisia per Obama che tanto tra due anni non sarà più responsabile delle scelte americane e che oggi si gioca questa carta come operazione di consenso anche contro la “nuova” maggioranza parlamentare, condizionata dalle vecchie lobby energetiche legate ai Repubblicani; e ipocrisia anche per il premier cinese che si presenta così, dal punto di vista internazionale come capace di trattare con il patner americano e, dal punto di vista interno, dimostra una certa attenzione in un paese dove il tema ambientale è caldissimo visto l’aumento esponenziale delle malattie collegate all’inquinamento.
Interesse, quello economico e finanziario, a rilanciare filoni d’investimento presentati come alternativi che in America hanno significato in nome dell’”indipendenza energetica nazionale” il via libera a pratiche come il fracking e per la Cina la riconversione interna, con movimentazione di investimenti e capitali, verso tecnologie alternative (tra le quali è contemplata, oltre all’impegno sulle rinnovabili, anche l’apertura di 200 nuove centrali nucleari), oltre al consolidamento a livello internazionale del monopolio sulla produzione di pannelli solari e tecnologie “green”.
Tutto questo in uno scenario che vede svilupparsi nuove alleanze internazionali, come quella tra Cina e Russia sulle rotte dell’approvigionamento da gas, o verificarsi sommovimenti geopolitici come quelli che, in Medioriente, vedo emergere nuovi padroni per il vecchio ciclo energetico legato alle estrazioni petrolifere.
Le contraddizioni delle precedenti edizioni della Conferenza ONU hanno accompagnato nel tempo le diverse fasi della crisi e del mutamento nelle forme del potere globale. Oggi mettere questo tema al centro dell’azione politica in movimento, attualizzandolo lo slogan “cambiare il sistema, non il clima”, significa contestare lo scenario contemporaneo del mercato unico del capitalismo finanziario, basato sul saccheggio di risorse e ambiente, sulla speculazione, in chiave di puro incremento della rendita, anche sui mercati della green economy. Indipendenza e costruzione d’alternative praticabili passano invece attraverso la riappropriazione piena di una pratica del comune, di una cooperazione sociale libera, che non può che racchiudere in sé anche le dimensioni della crisi ecologica ed energetica. Sono tutti temi che, attraverso mobilitazioni transnazionali come quelle di Blockupy e le iniziative contro l’Expo di Milano, possono costruire un cammino verso Parigi nel dicembre 2015. COP21 può costituire l‘occasione propizia per rilanciare tutti questi temi e affrontare dal punto di vista dei movimenti, sul terreno finalmente europeo e globale, la battaglia contro la catastrofe che si annuncia e si verifica ogni giorno nella prospettiva di una radicale alternativa di sistema. Approfittiamone!
Associazione Ya Basta - Padova
Primissime riflessioni sull’accordo USA-Cina di Naomi Klein
Ottimo tempismo
Il tempismo non è tutto, ma di certo aiuta. Dopo le elezioni di mid-term l’umore nel mondo ambientalista è crollato rapidamente. Ci siamo trovati di fronte alla prospettiva di avere Camera dei Rappresentanti e Senato dominati dai Repubblicani - in grado, questi, di revocare i controlli sulle emissioni, di fare approvare l’oleodotto Keystone XL e di eleggere un “negazionista” del cambiamento climatico (James Inhofe) a presidente della Commissione del Senato per l’Ambiente e i Lavori Pubblici. Girava già voce che le trattative sul clima alle Nazioni Unite fossero morte ancora prima di cominciare.
In un contesto del genere, l’accordo tra USA e Cina sul clima è una buona notizia di cui c’era enorme bisogno, perché è il segnale della volontà di Barack Obama di spendere il proprio capitale politico per lasciare un’eredità positiva in materia climatica.
Per i Repubblicani sarà più difficile infrangere le promesse fatte da Obama.
L’accordo è intelligente anche dal punto di vista tattico: legando in un unico accordo bilaterale gli obiettivi di riduzione delle emissioni di entrambi i paesi, il presidente si assicura che il suo successore debba considerare il rischio di alienarsi il partner commerciale più importante dell’America se desidera cedere al desiderio di non rispettare gli impegni. Una mossa molto intelligente.
Sottrae agli ostruzionisti del clima la loro argomentazione migliore.
Ciò che più conta, gli impegni che la Cina assume in base all’accordo annullano l’argomentazione storicamente più efficace in difesa della "climate negligence" degli Stati Uniti: "Perché dovremmo smettere di inquinare se non lo fa la Cina?". Per la prima volta, la Cina si impegna a mettere un tetto alle proprie emissioni e riconosce la necessità di imporre un limite alla propria colossale crescita basata sul carbone.
Dimostra l’importanza dei movimenti
Il fatto che entrambi i governi abbiano sentito l’esigenza di assumersi questo impegno è un segnale del potere crescente dei movimenti sociali in lotta, in Cina e negli Stati Uniti, per ottenere controlli sull’inquinamento. Negli USA, a settembre 350.000 persone hanno manifestato a New York per chiedere di fare qualcosa. In Cina l’aumento dei livelli d’inquinamento nelle principali città ha prodotto una pressione senza precedenti sul partito di governo, con la richiesta di smettere di puntare così tanto sul carbone. Soprattutto alla luce delle proteste di Hong Kong, il governo cinese non può permettersi di ignorare l’opinione pubblica.
L’accordo galvanizzerà i movimenti nord-americani contro gli oleodotti di sabbie bituminose e contro i terminal per l’esportazione di carbone
Negli ultimi anni si è assistito al proliferare di movimenti intenti a bloccare le infrastrutture necessarie ad esportare in Asia i carburanti fossili sporchi. Questo accordo rende chiaro che in Cina il mercato per questo genere di prodotti sporchi è in calo - motivo in più perché le aziende non investano miliardi in nuovi oleodotti o terminal per l’esportazione. I bassi prezzi del petrolio hanno già affossato i metodi estrattivi più costosi, e con questo accordo assesteranno un ulteriore colpo.
Non basta - ma è a questo che servono i movimenti
A tutt’oggi nessuno dei due governi sta ancora mettendo in atto una politica climatica in linea con la gravità della crisi, ed entrambi stanno lasciando ai posteri la parte più difficile. Come sostengo in This Changes Everything, non possiamo diminuire le emissioni secondo i dettami della scienza, se non si verificano mutamenti economici molto più profondi. Ma gli impegni presi contano, perché i movimenti li possono sfruttare per ottenere maggiori vittorie.
Ha senso perché USA e Cina hanno già in comune l’inquinamento da Co2
Gran parte delle emissioni cinesi derivano dalla produzione di beni acquistati dagli occidentali. Non ha mai avuto senso trattare una sfida così integrata e globale come se fosse qualcosa che le singole nazioni possono affrontare da sole: problemi transnazionali esigono soluzioni transnazionali. Detto questo, le emissioni non diminuiranno quanto sarebbe necessario finché noi in Occidente non cominceremo a consumare meno roba inutile, a prescindere dal luogo in cui essa viene prodotta.
Gli accordi commerciali possono ancora averla vinta
Come sostengo nel libro, gli accordi di libero scambio e le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) sono sempre più spesso utilizzati per indebolire le principali politiche sul clima, bloccando le sovvenzioni per le energie rinnovabili e le altre forme di sostegno al settore dell’energia pulita. L’espansione sconsiderata del commercio transfrontaliero, inoltre, alimenta il consumo e la crescita delle emissioni di anidride carbonica, e gli accordi nel solco del NAFTA danno alle corporation lo scandaloso potere di sfidare politiche nazionali e tribunali internazionali. Gli obiettivi climatici possono ancora essere minati dall’accordo tra USA e Cina sui beni ad alta tecnologia (che il WTO deve ancora approvare) o da un grande, nuovo accordo regionale per il commercio come il Trans-Pacific Partnership.
Stay tuned…
Traduzione a cura di Barbara Del Mercato
Tratto dal blog http://thischangeseverything.org/