In questo articolo si parla di:
Quali sono le ripercussioni del conflitto siriano sulla scena politica libanese? Alcune interessanti chiavi di lettura nell’estratto di un saggio di Vincent Geisser.
Di tutti i Paesi del mondo arabo, il Libano è forse il più esposto agli effetti destabilizzanti del conflitto siriano, dal momento che le relazioni familiari, culturali, religiose, militari, politiche ed economiche esistenti tra i due paesi sono antiche e profonde.
Se è vero che oggi nessun attore libanese avrebbe il coraggio di sostenere pubblicamente la formula di al-Asad padre "una nazione due stati " ad eccezione dei "sicofanti" del regime baathista e dei nostalgici della "Grande Siria", tutti riconoscono il "peso specifico" del legame siro-libanese, nel contesto della crisi regionale, legame che ha risvegliato i fantasmi del passato (e il trauma della guerra civile).
Da questo punto di vista, le conseguenze del conflitto siriano si manifestano nello spazio pubblico libanese in maniera paradossale.
Anche se le rappresentazioni ansiogene dominano i dibattiti, i comportamenti e le strategie di attori pubblici e istituzioni (la paura dell’importazione del conflitto e di una " sirianizzazione” delle questioni interne), suscitano anche nuove speranze sulla formulazione di un interesse nazionale libanese che si è espresso in chiave securitaria (protezione delle frontiere contro le minacce esterne ), diplomatica (l’affermazione di una certa neutralità nelle istituzioni internazionali) e legittimista (difesa delle grandi istituzioni dello Stato: esercito e Presidente della Repubblica).
A livello ufficiale, il governo libanese si è costantemente richiamato ad una politica di dissociazione, cercando di neutralizzare le ricadute "negative" del conflitto siriano sul territorio nazionale. Allo stesso tempo però, gli attori politici non hanno mai smesso di polemizzare su tutti gli aspetti della "questione siriana" sia che si trattasse della sicurezza delle frontiere, del ruolo dell’esercito, del coinvolgimento di Hezbollah, dell’accoglienza dei rifugiati, e del trattamento da riservare a oppositori e sostenitori del regime di Bashar al-Assad ...
Nelle arene istituzionali tutti questi temi sono stati oggetto di un intenso dibattito (governo, parlamento, forze di sicurezza , ecc .), degenerando a volte in violenza politica nella capitale Beirut, e in particolare nelle città dell’entroterra. Tripoli e Saida hanno vissuto, a più riprese, scontri mortali tra rappresentanti pro e anti-regime siriano.
In breve, la politica di dissociazione, se si è tradotta in una forma di neutralità dello Stato libanese nelle arene diplomatiche e internazionali, nei fatti non ha mai impedito una iper-politicizzazione della "questione siriana", a volte dando l’impressione che la Siria è, in definitiva, un pretesto per trattare principalmente questioni interne.
Più che l’immagine di una "sirianizzazione” del palcoscenico libanese, che lascia credere che il Libano si accontenterebbe di subire le drammatiche vicende del suo vicino di casa storico, bisognerebbe vedervi piuttosto una captazione della "questione siriana" da parte degli attori libanesi a scopi di legittimizzazione interna, e di egemonia politica.
I discorsi vittimistici veicolati da partiti politici e opinion leaders, che giocano sulla classica rappresentazione dello "stato debole" tenuto in ostaggio dal suo potente vicino, non ci devono far dimenticare la capacità degli attori locali di sfruttare nelle crisi internazionali per far valere i propri interessi.
La guerra civile in Siria appare anche come una rendita, per le forze dominanti libanesi, agendo a discapito delle preoccupazioni quotidiane dei cittadini comuni (occupazione, alloggio , energia elettrica , alto costo della vita ...).
La "politica della paura" agitata tanto dai sostenitori libanesi del regime di Bashar al- Assad (Hezbollah, Amal, il Movimento patriottico libero del generale Aoun, Partito Socialista Nazionale Siriano, ecc.) che dai suoi detrattori (Partito socialista progressista di Walid Jumblatt, il Movimento del Futuro di Saad Hariri, le Forze libanesi di Samir Geagea, i Kataeb di Amin Gemayel, le organizzazioni salafite, ecc.), offre anche la possibilità per tali soggetti di riposizionarsi sulla scena nazionale, fare la conta dei fedeli, rimobilitare i propri gruppi e affinare nuove strategie di conservazione o di conquista del potere.
Tuttavia, queste strategie comunitarie orchestrate da opinion leaders e personaggi pubblici non riuscendo a delineare "blocchi politico- religiosi" relativamente omogenei, producono però fratture in tutti gli strati della società libanese. In effetti, la "questione siriana" suscita divisioni in ogni settore sociale, culturale e comunitario del paese. In questo, e in Libano più che altrove, la guerra civile in Siria è una questione eminentemente politica, nonostante le letture confessionali che alcuni attori religiosi e commentatori della scena siro - libanese tentano di imporre.
Contrariamente alle rappresentazioni correnti, spesso tese a rafforzare l’immagine della società libanese come "eterna vittima " degli appetiti geopolitici regionali e internazionali, si può notare come i politici locali si siano appropriati della crisi siriana per cercare di imporsi nello spazio pubblico, giocando contemporaneamente sul tessuto comunitario (identità confessionali e regionali) e sulla difesa dell’interesse generale (istituzioni statali). L’accusa ricorrente di importare il conflitto siriano in Libano viene brandita contro il nemico per meglio screditarlo e crearsi allo stesso tempo la qualità di difensore di una "libanità" mitica, preda della "sirianizzazione".
L’impatto della guerra civile in Siria è stato piuttosto che una destrutturazione della scena politica libanese il rafforzamento dello status quo politico-religioso, e la marginalizzazione di tutti i tentativi di riformare il sistema in una prospettiva universalista e laicista.
In questo senso, molti attori politici libanesi appaiono non come vittime ma come coloro che "vivono di rendita" sulla crisi siriana, allontanando sempre di più la speranza di una revisione globale e democratica delle istituzioni.
Ancora una volta, il discorso sulla "eccezione libanese" ha funzionato a pieno: da una parte per difendere i guadagni di una "Rivoluzione dei Cedri" (2005) convenientemente presentata come la pioniera delle primavere arabe, e dall’altra per celebrare l’ " asse di resistenza" (Hezbollah/Siria/Iran), il solo capace, secondo loro, di proteggere il Libano contro l’"egemonia israelo-americana" nella regione.
Eppure all’interno della società libanese, sono tanti i cittadini comuni a condividere un senso di amarezza: se il Libano si situa nel cuore della crisi siriana soffrendone le conseguenze quotidianamente, resterà anche al margine delle sollevazioni arabe.