Terre resistenti Reggio Emilia 13-14 ottobre 2012
Per due giorni il percorso Terre resistenti è stato ospitato in Casa Bettola di Reggio Emilia, ma soprattutto sono state ospitate persone e realtà giunti da diversi territori, ognuno portando con se idee e pratiche da mettere in comune sul nodo della terra al tempo della crisi.
Proprio la parola ospitalità ci può indicare il significato delle due giornate - hospes significa sia colui che ospita sia colui che viene ospitato, senza alcuna distinzione; infatti sono state due giornate costruite insieme nella condivisione delle nostre esperienze, nel confronto dei nostri progetti e conflitti quotidiani.
Da Vicenza, Schio, Verona, Trento, Padova, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Pisa, Empoli, Fano, Fabriano, Jesi, Senigallia, Lecce…ognuno ha messo a disposizione conoscenze e saperi, dubbi e convinzioni per affermare il valore del territorio come luogo di produzione di nuove progettualità e conflittualità ma allo stesso tempo l’importanza di uscire da una dimensione provinciale per cercare un confronto tra contesti diversi.
Le esperienze che abbiamo condiviso ci raccontano di quante pratiche ricche di possibilità alternative già esistono. Esperienze sicuramente parziali, ma che messi insieme ci permettono di prefigurare possibili cambiamenti.
E’ stata un occasione per affrontare un tema, che per la sua complessità merita una riflessione approfondita, a maggior ragione se osserviamo come in questo periodo trova ampio spazio nell’opinione corrente o le tendenze dominanti che fanno si che i concetti che promuoviamo sono sempre più diffusi ma contestualmente più ambigue e ricchi di contradizioni – rischiando di essere recuperate dalle stesse logiche che vorremmo superare.
Quello che segue sono appunti tracciati durante gli interventi e i momenti assembleari delle due giornate.
Coltivare
idee e pratiche
per la terra
il territorio
e l’ambiente
Terra come terreno di intervento politico trasversale
Marc Tibaldi - Laboratorio t/Terra
In quello che abbiamo definito il nodo t/Terra si intersecano quasi tutti i piani di liberazione e i dispositivi di dominio. Se fino agli inizi degli anni ’80 c’è stata una centralità della classe operaia impiegata nella fabbrica fordista, come sappiamo, ora la centralità si è frammentata, anche se parti importanti attraversano la questione t/Terra, vero paradigma della biopolitica contemporanea. Ambiente, multinazionali, ogm, biotecnologie, biodiversità, paesaggio, alimentazione, lavoro migrante, controllo del territorio, agroenergia… fino alla svalutazione dell’esperienza sensoriale, sono tutti nodi che intrecciano il settore dell’agricoltura.
Ma all’interno di questo nodo è urgente un impegno allo sviluppo di un nuovo linguaggio che esprima il cambiamento avvenuto in quello che un tempo sono stati l’agricoltura e il mondo contadino. A partire dalle soggettività che lavorano in questi ambiti (agricoltura neo-rurale, esperienze di produzione di reddito autogestito, orti, distribuzioni, mercati, attivismo ecologista…) fino al contesto planetario è necessario un cambiamento di immaginario e di analisi politica (mi permetto di consigliare la lettura del capitolo “Le classi pericolose” in “Moltitudine” di Negri e Hardt, è il miglior tentativo – di cui sono a conoscenza – di rileggere questi temi).
E’ necessario collocare il tema della t/Terra all’interno di un percorso complessivo per non lasciarlo alla green-economy (ovvero il capitalismo che ha recepito il senso del limite) e nemmeno alla confusa teoria interclassista che è la decrescita (che non mette in discussione sfruttamento, dominio, potere, gerarchia).
Diventa quindi importante uscire dalla ripetitività dei riti consolatori e di rassicurazione, dalle liturgie direbbe Agamben (si legga “Opus Dei”, il suo ultimo libro), perché le liturgie producono sistemi di potere. Le piccole esperienze che portiamo avanti rimangono delle minuzie se non sono inserite in un più ampio contesto di individuazione delle lotte.
È necessario che il nodo t/Terra venga innestato sul progetto MayDay/SanPrecario, proprio perché questo nodo non è altra cosa rispetto dalla frammentarietà e dalla precarietà voluta dalla ristrutturazione capitalista transnazionale. Una sola lotta per la ricomposizione di una soggettività plurale agente.
Continuare a introdurre piccole migliorie a ciò che è stata nei primi anni del 2000 l’importante esperienza di t/Terra e libertà/critical wine (di cui i componenti lab t/Terra furono fondatori), progetto politico che coinvolse decine di centri sociali, e da cui sono nate altre esperienze. Sensibilità planetaria e rivoluzione dei consumi; tracciabilità del prodotto e del prezzo; prezzo sorgente; qualità del prodotto e qualità delle relazioni sociali che lo presuppongono; mercati, eventi, autocertificazione… sono tutte pratiche e concetti che vengono da quell’esperienza, ma che non sono più sufficienti!!! Sono passati dieci anni, il mondo è cambiato, ripetersi e chiudersi nelle liturgie dei mercati, anche se autogestiti, delle buone pratiche, del neo-ruralismo (per non parlare delle derive neo-religiose che spesso accompagnano certe esperienze) non va più bene. O meglio, sono esperienze che è utile continuare ma inserendole in un programma politico che tiene a se una messa in discussione organica della vita attiva.
Consumo, agricoltura, alimentazione e tutte le tematiche legate all’ambiente e alla t/Terra non possono essere più considerate attività produttive e forme di vita qualitativamente differenti e isolate. Come tutti gli altri settori, diventano sempre più biopolitiche. Questo divenire comune è una delle condizioni che rendono possibile l’esistenza delle lotte in rete. In termini filosofici si può dire che ci sono molti modi singolari di dare vita a una comune sostanza del lavoro: ogni modo ha una propria essenza singolare, e nondimeno tutti partecipano a una sostanza comune.
Basta pensare a ciò che unisce il processo di trasformazione dell’agricoltura e del sistema alimentare alle lotte per i diritti. Entrambe dipendono sempre più dalla produzione e dal controllo dell’informazione.
Dell’informazione genetica per quel che riguarda l’agricoltura. Infatti una delle lotte più interessanti degli ultimi anni è quella contro le multinazionali che rivendicano la proprietà dell’informazione genetica contenuta nei semi. Quindi culture materiali, agricoltura e culture immateriali e cognitive si intersecano nel nodo t/Terra.
t/Terra. Linguaggio. Immaginario. Esperienze concrete e conflittualità. Non possono esistere conflitti che non sappiano agire, in forma parallela, intrecciata e collegata, su due direttrici: le lotte relative all’esistente da un lato, la creazione nel qui ed ora delle alternative possibili e auspicabili dall’altro.
La terra come opportunità contro la crisi
Armando de Matthaeis - Comunità in resistenza, Empoli
Cosa vuole dire oggi il superamento della crisi? Vuole dire percorrere la strada imposta dalla Troika, con la prospettiva di condizioni di lavoro e vita sempre più precari e flessibili, o possiamo iniziare a ricomporre un nuovo immaginario da costruire giorno dopo giorno per ribaltare il modello di sviluppo?
Oggi è questa la scommessa, costruire un futuro possibile, partendo da luoghi come i centri sociali e spazi occupati che in tutti questi anni hanno rappresentato, e rappresentano un’alternativa praticabile, senza deleghe, all’interno di una pratica sociale che pone al primo posto la lotta per i diritti, contro le logiche di mercato.
In questo contesto crediamo che la terra può essere uno degli ambiti dove iniziare a creare nuove ragionamenti sul lavoro in agricoltura, che coincidono con la ricerca di nuove risposte alla domanda di cosa produrre, dove produrre e come produrre.
Ricostruire ciò che vuole dire essere e vivere in campagna, essere e vivere l’agricoltura. Un occasione per ritrovare il rapporto perduto tra l’essere l’umano e la terra, ma non nel senso di un ritorno alla ruralità fino a se stesso, ma all’interno di una riflessione, che ci deve portare alla ridefinizione anche di un nuovo linguaggio per definire cosa vuol dire “ritornare alla terra” nel 2012 .
Il 6 censimento dell’agricoltura 2010 Istat ci offre una fotografia dell’agricoltura oggi; vediamo che c’è stata una riduzione di aziende a conduzione diretta che evidenzia il fatto che sempre più piccole aziende hanno chiuso mentre grandi aziende ne hanno assorbito i terreni. L’interesse dunque non è quello di puntare alla sostenibilità di un territorio, alla valorizzazione delle sue tradizioni; al contrario il tentativo è quello di creare da un lato grandi latifondi monoproduttivi e dall’altro sempre più nicchie da “SlowFood”. (pensiamo all’esempio del pomodoro pachino pugliese, che ci viene venduto all’interno dei circuiti Slowfood al triplo del prezzo). Vogliamo discutere come possiamo invertire questa tendenza; come rivendicare la terra per lavorare, produrre e creare ambiti di mercato autogestito. Diffondere esperienze come i gas, aprire osterie sociali, sperimentare reti solidali.
Un agricoltura 2.0, con BIO/fattorie dotate di panelli solari e tecnologie che possono agevolare il lavoratore agricolo, il nuovo soggetto della campagna. Abbiamo bisogno di creare momenti di incontro dove si possono creare passaggi di saperi, incontri tra chi sa potare l’olivo e chi lo vuole imparare, tra chi sa impiantare la vite e chi lo vorrebbe iniziare a fare; momenti formativi svincolati dalla Regione, la Provincia o la Coldiretti, in cui si inizia a tracciare percorsi alternativi.
Oggi viviamo in metropoli invivibili, in cui i centri storici sono diventati città vetrina, le periferie sono sempre più abitate da centri commerciali i non-luoghi, e poi c’è il niente. Diventa neccessario ricomporre un rapporto tra chi vive in città e chi vive e lavora in campagna, ridefinire il concetto di città, che non può essere continua estensione di cemento, può rappresentare un interessante terreno di riflessione e sperimentazione.
Questi vogliono essere degli spunti per una discussione più ampia da sviluppare tutti insieme.
I nuovi conflitti ambientali e la ricerca di forme di democrazia diretta
Domenico Muchignat - Ass. Yabasta, Bologna
La definizione di conflitti ambientali prende un campo molto ampio in cui possiamo includere lotte e territori con caratteristiche e sviluppi estremamente diversi tra loro: per esempio i movimenti contro le miniere a cielo aperto in America Latina, le mobilitazioni contro la diga sul fiume Tigri in Turchia, le proteste contro gli allevamenti di gamberi nel territorio Shrimp di Bangladesh, per citare alcune con tratti molto diversi. Ci sono anche conflitti ambientali che a prima vista non sono declinati in questa fattispecie. Pensiamo alla lotta dei No dal Molin contro la base militare dell’esercito degli Stati Uniti a Vicenza che nella sua realizzazione andrà a intaccare pesantemente le falde acquifere adiacenti e sottostanti la base.
Dunque quando si parla di conflitti ambientali dobbiamo guardare uno spettro molto ampio di lotte. Ma per essere molto sintetici e andare al cuore del problema possiamo definire in sintesi il conflitto ambientale come la contrapposizione tra due modelli di sviluppo e due sistemi di valori contrastanti e incompatibili. Da una parte l’allargamento della frontiera di controllo sulle risorse del modello capitalista. Dall’altra la rivendicazione di una gestione territoriale che sia socialmente e ambientalmente sostenibile.
E possiamo dire che il conflitto ambientale si da laddove vi sia un’opposizione da parte delle comunità che risiedono nei territori investiti da progetti che modificano l’assetto tradizionale di usufrutto dei servizi ambientali.
Tali progetti, che possono essere estrattivi, industriali, infrastrutturali ecc. portano non solo un modello di gestione dei territori non sostenibile ma introducono una visione sociale, culturale e economica che si impone sui saperi e sulle pratiche locali.
In questo modo si cerca di omologare processi sociali ed economici locali al modello di consumo dominante.
Sono diversi i fattori che negli ultimi anni hanno determinato una maggiore diffusione dei conflitti ambientali. Io ne riporterò tre che considero tra i principali
1. Oggi ci troviamo di fronte a un quadro mondiale dove gli Stati nazione sono sempre più incapaci di far fronte ai problemi del territorio e di conseguenza trovano sempre più protagonismo organismi finanziari transnazionali, banche, grandi società di capitale ecc.. Tutti questi organismi agiscono con un unico obiettivo: il raggiungimento del maggior profitto senza curarsi degli effetti presenti e futuri che il loro intervento determinerà sul territorio e sugli abitanti che vi abitano.
E proprio questa cessione di gestione al capitale da parte degli enti istituzionali che ci fa dire che solo l’opposizione dei cittadini può determinare dei cambi di rotta e delle forme di resistenza.
2. Il progressivo esaurimento delle risorse naturali e il degrado degli ecosistemi dovuto, secondo le fonti delle Nazioni Unite, a vari fattori ma due sono i principali: la riduzione delle terre coltivabili e l’aumento della popolazione che determina una crescita delle necessità di cibo, acqua dolce, legname, fibre e fonti energetiche.
Oggi l’umanità è ormai in debito ecologico nei confronti del pianeta. Per vivere, muoversi, nutrirsi, coprirsi consumiamo ogni anno il 30% in più di quello che il pianeta è in grado di rigenerare. Naturalmente noi sappiamo che una parte del pianeta consuma di più di quello che necessita e una parte non riesce a procacciarsi le risorse per sostenere una vita dignitosa. E questa separazione oggi nella crisi è sempre più a macchia di leopardo. Con sacche di poverta sempre più diffuse anche in quello che veniva una volta chiamato il primo mondo.
3. Le nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso la conoscenza e la diffusione delle esperienze di lotta che si determinano in ogni angolo del mondo. Questo ha reso consapevoli milioni di persone delle ingiustizie sociali e ambientali che molte comunità si trovavano ad affrontare, e ha favorito la creazione di reti di solidarietà e appoggio
La resistenza, le lotte al tentativo del capitale di mettere tutto a profitto, di devastare i propri habitat ha stimolato una ricerca di alternative da parte delle comunità locali che in molti casi hanno sviluppato nuove forme di partecipazione diretta che superano la barriera della delega e della rappresentanza e mirano alla costruzione di modelli egemonici globali attraverso le esperienze locali (e spesso cercando un rafforzamento con le reti transazionali).
Abbiamo visto nascere forme nuove e dirette di partecipazione, di sperimentazione di strumenti di democrazia dal basso, processi organizzativi non privi di elementi di novità. Pensiamo alla Coordinadora dell’acqua a Cochabamba, alle Comunità zapatiste, alle assemblee de vecinso nei Barrio argentini.
Ma diversi esempi li possiamo trovare anche in Italia: l’assemblea dei comitati NO TAV in Val Susa, il Presidio No Dal Molin, e per ultimi per temporalità il Comitati lavoratori e cittadini liberi e pensanti di Taranto.
Sono questi processi di mobilitazione che stimolano la società civile a diventare attore sociale che rivendica il diritto a partecipare alle scelte che riguardano il territorio.
Queste esperienze, dobbiamo essere onesti, non sono la maggioranza della società ma hanno chiaro due punti:
Che il più grande errore di valutazione portato avanti dal modello economico attuale, e che rischia di portarci al collasso, è credere che le risorse naturali siano infinite.
E l’espressione di queste nuove tendenze recuperano l’idea che non ci sono altre soluzioni se non quella di prendere le redini del proprio destino senza più delegarlo.
Le denunce, le assemblee e il confronto continuo nelle comunità, le azioni legali, le azioni dirette e le mobilitazioni di massa e spesso radicali, hanno dimostrato in molti casi che un processo dal basso gestito collettivamente e portatore di interessi diversificati può vincere le battaglie per la difesa dei propri territori e dei beni comuni.
Coltivare la città, costruire la campagna
Per introdurre la condivisione delle esperienze locali, ci possiamo soffermare un attimo su un aspetto che, nonostante le differenze, sembra trasversale tra le varie realtà: il tentativo di creare relazioni tra mondo urbano e mondo rurale.
Durante il secolo scorso il rapporto tra urbano e rurale si è radicalmente trasformato, il contesto rurale ha subito un urbanizzazione che ha favorito da un lato un approccio consumistico verso la natura, e dall’altro un approccio produttivista, in cui la campagna è vista come una fonte di rifornimento di beni agricoli destinati ai mercati urbani.
Il confine tra urbano e rurale oggi è molto poroso, qui in Emilia si può vedere in modo evidente come l’espansione edilizia e la cementificazione ridisegna il paesaggio continuamente. Nonostante questo nel nostro immaginario rimane l’idea di due contesti divisi in modo netto, spesso immaginati come antitetici.
Credo che ci vorrebbe uno sforzo per andare oltre questa dicotomia e pensare come costruire un comune tra mondo urbano e mondo rurale.
Insieme si può rivendicare forme di gestione diretta dei processi di urbanizzazione e sul modo in cui i nostri territori sono costruiti e ricostruiti. Per rovesciare il paradigma della privatizzazione della ricchezza e la socializzazione dei costi ambientali e sociali.
Tutti quelli che faticano per produrre e riprodurre la città e la campagna dovrebbe avere il diritto collettivo non solo a ciò che producono ma anche di decidere cosa si deve produrre, dove si deve produrre e come si deve produrre. Inoltre, tutta la comunità del territorio dovrebbe avere il diritto di partecipare nelle scelte sulla produzione, perché ne sopporta il carico ambientale e la trasformazione del territorio che comporta.
Terra bene comune da difendere
Magda - Coordinamento Rete Acqua Suolo, Reggio Emilia
Il gruppo, partecipato da diverse realtà territoriali attive nella difesa dei beni comuni, sta lavorando sulla mappatura dei terreni pubblici, e l’approfondimento sui terreni demaniali e pubblici. Abbiamo elaborato un documento con le nostre proposte e una scheda per rilevare i dati catastali da inviare ai vari sindaci alla provincia di Reggio Emilia, per il momento è stato inviato a 12 sindaci di Reggio Emilia, hanno risposto solo in 5. Sembra che tutti siano d’accordo, che non bisogna vendere i terreni agricoli pubblici, che bisogna attivare un’agricoltura contadina, valorizzare il territorio agricolo, che l’ambiente è la prima cosa di cui il Comune si fa carico. Ma insomma, è un modo per dire vi ascoltiamo poi facciamo quello che possiamo fare.
Una cosa che abbiamo visto nella Bassa Reggiana è che non esiste più l’agricoltura come c’era prima, è non esistono più i contadini, perché grandi proprietari come Cagni e Benelli, stanno acquistando grossi estensioni di terreno per la coltivazione di mais per produrre biocarburante. Questa è una cosa che ci dovrebbe preoccupare tanto, perché è la più grande devastazione territoriale che può avvenire. La Bassa sta diventando un territorio lunare, hanno già tolto tutti gli alberi che c’erano, stanno già coprendo i fossi, quindi non ci sarà neanche una tutela idreologica.
Alcuni Comuni, pur condividendo il nostro documento, tra le righe hanno lasciato capire che quando servono i soldi si fanno cose che bisogna fare secondo una loro mentalità. C’è il Comune che a fermato il piano regolatore, dicendo io sono contro la cementificazione del territorio perché o bloccato il piano regolatore, però sta andando avanti con un piano regolatore degli anni passati che vuol dire cementificare lo stesso. Ci sono anche comuni che dicono noi abbiamo bloccato la cementificazione del territorio però abbiamo dovuto dire di si alla costruzione di villette perché sappiamo che queste vengono vendute mentre altre non vengono vendute; quindi la ricerca del pregio e del lusso portano avanti queste logiche.
In questo periodo in cui siamo in attesa di risposte da parte dei comuni, abbiamo capito che come coordinamento spontaneo, come gruppo di persone che si presenta così, non abbiamo l’importanza che l’argomento che portiamo avanti dovrebbe avere. Per cui è nata l’idea di costituirci in associazione legalmente costituita, con lo scopo di promuovere la nascita di un organismo deputato all’acquisizione di terre agricole da sottrare alla cementificazione e la speculazione fondiaria e da destinare alla produzione di prodotti agricoli biologici e biodinamici. Mentre facciamo questo lavoro dobbiamo fare dei corsi di formazione per preparare dei nuovi contadini, perché non si possono acquistare delle terre senza che ci sia qualcuno che li coltiva.
Un altro tema che stiamo affrontano all’interno di questo gruppo è il Progetto Campo Volo, abbiamo già inviato un ulteriore lettera al Sindaco di Reggio Emilia per sollecitare un incontro è discutere il progetto che è stato chiamato la collina della musica e che comprende tanto terreno a destinazione agricola, sia pubblico che privato, è quindi chiediamo che almeno sul terreno pubblico viene aperta una discussione e che non vengano approvati progetti senza che la gente non sappia nulla.
Accesso alla terra
Cristina - Campi Aperti, Bologna
Una piccola premessa sull’esperienza di Campi Aperti, che lavora sul territorio di Bologna da dieci anni, unendo quelli che sono degli agricoltori che fanno un tipo di agricoltura non solo biologica ma anche contadina, quindi con dei terreni che hanno un estensione medio-piccola e diversificano molto la loro produzione e cercano anche di aumentare il numero di persone che lavorano in questi terreni per cercare una massima occupazione possibile, con i coproduttori che sono quelle persone che pur vivendo in città, pur andando si a fornire di questi prodotti si informano su tutto quello che c’è dietro la produzione del cibo che mangiano e partecipano alle scelte che sono necessarie per fare in modo che questo possa continuare ad esser in questo modo.
Campi Aperti ha organizzati già da alcuni anni alcuni mercati in cui partecipano solo dei produttori che vendono solo quello che producono, quindi con l’azzeramento della filiera che c’è dietro e il riconoscimento del prezzo che il coltivatore ritiene giusto per il lavoro che ha fatto, elaborato e condiviso insieme a chi partecipa al mercato. Il risultato che si ottiene è che le persone possono andare a questi mercati dove incontrano le persone che hanno prodotto le cose che acquistano.
Da questa realtà sono nate diverse campagne, una di queste è Genuino Clandestino che si riferisce alla trasformazione dei prodotti; se io trasformo dei prodotti per vendere direttamente non devo soddisfare tutti quei complicati meccanismi che vengono fatti per la grande distribuzione, tutte quelle norme, una sorta di disobbedienza che si basa sulla fiducia che c’è tra chi produce e chi compra; il rapporto fiduciario tra quelli che sono i produttori e i coproduttori è la base essenziale di questo meccanismo. Come anche la certificazione dei prodotti, che sono tutti biologici che vengono venduti al mercato, non passa necessariamente attraverso un meccanismo esterno al quale bisogna pagare concessione eccetera, ma riteniamo giusto anche poter usufruire dell’autocertificazione partecipata che viene svolta da tutte le persone che partecipano a questa rete.
Questo è quindi il contesto dentro il quale si sta svolgendo il progetto di cui vi vorrei parlare, che si chiama Accesso alla Terra. Alcuni ragazzi che volevano fare contadini ma non avevano i soldi per comprare i terreni che costano ancora tanto, non fosse altro per quello che si pensa di poterci ricavare se un giorno diventano edificabili, hanno pensato perché non cerchiamo qualcuno a cui chiedere i soldi per poter acquistare questi terreni.
E’ stato un percorso difficile, lungo il quale abbiamo conosciuto la Mag6 che ci sta aiutando adesso nella parte in cui stiamo realizzando un piano di impresa per costituire una cooperativa che faccia proprio questo; che attraverso i soldi di risparmiatori che vivono potenzialmente in città ma non necessariamente, comprino dei terreni da dare in affitto a questi giovani agricoltori, che presentino dei progetti che rispondono a questi criteri di sostenibilità, di rispetto e mantenimento delle risorse del territorio che ci circonda, e che soprattutto condividano la visione che la terra è un bene di tutti. Per questo la cooperativa che stiamo formando ha anche come obbiettivo che ci sia una condivisione tra quelli che sono i finanziatori e quelli che sono le persone che coltivano, e quindi possono continuare a seguire il lavoro che viene fatto nei campi, attraverso forme di scambio che ci possono essere andando a raccogliere i propri prodotti.
Ci ispiriamo anche da un’esperienza francese chiamata Terre de Lienne, che attraverso una fondazione sono riusciti ad acquistare e gestire 60 poderi. Ora noi ci stiamo movendo sulla provincia di Bologna, stiamo predisponendo un bando per gli aspiranti agricoltori che vengano e ci portino il loro progetto d’impresa che risponda a quello che è la nostra visone di come deve essere fatta l’agricoltura, e parallelamente stiamo facendo anche un bando di aspiranti finanziatori, che insieme a noi vogliano costruire questo progetto che non necessariamente possono partecipare con tanti soldi ma riconoscendosi nelle idee del progetto possono partecipare.
L’idea di base è che i terreni che vengono acquistate sarà una proprietà indivisa; di chi li sta comprando, di chi li gestirà e di chi godrà del beneficio di questo tipo di agricoltura.
Vogliamo che queste esperienze non rimangono proprietà solamente di chi adesso sta portando avanti un progetto, ma vorremmo che in futuro l’esperienza che stiamo facendo, se si dovesse concretizzare in una maniera solida e forte, possa essere utilizzata da tantissime altre realtà di tutta Italia.
Marco - apicoltore, Campi Aperti
Come funziona l’autocertificazione partecipata in Campi Aperti? Al momento che un produttore chiede di partecipare al mercato, un gruppo costituito di una persona che fa lo stesso lavoro, una persona dell’associazione ed eventualmente un consumatore/coproduttore vanno a fare visita nell’azienda o a casa della persona che ha fatto richiesta, e attraverso uno scambio di conoscenze, sul metodo di lavoro, una visione di quello che sta facendo, decidono o meno se accettare all’interno del mercato questo produttore. Una volta fatta la visita viene presentata una relazione all’assemblea generale che dopo nel caso di approvazione viene sparsa al mercato dove uno vuole entrare a fare parte, ci si presenta e da quel momento si può iniziare a fare mercati.
Nell’ultima assemblea si è stabilita che ci saranno due date al anno, una in ottobre e una in primavera, dove i diversi produttori e coproduttori andranno a fare le visite nelle aziende che in quel periodo hanno richiesto una visita, nel pomeriggio si troveranno per discutere delle diverse visite nelle aziende e successivamente verrà l’approvazione o meno per l’ingresso ai mercati. I requisiti richiesti sono quelli di produrre un agricoltura contadina assolutamente biologica, pur se non obbligatoriamente certificata, perché appunto la certificazione viene fatta da altri produttori e coproduttori.
Luoghi delle utopie concrete
Rossana - produttrice Mercatiniera, Val Taro, Parma
La Mercatiniera è un entità che si sta formando ora ora, sia a livello politico sia anche come geografia umano, perché ha visto passare tantissimi produttori e adesso si sta cercando di dare una forma.
Siamo tutti produttori che vengono dal circondario di Parma, e anche qualcuno che viene dalla Val Taro, quindi molto distante, quindi ben rappresentiamo quel momento che dalle valli e dalla montagna cala in pianura con i propri prodotti e cerca di creare un legante tra la campagna e la città.
Domenico - Mercatiniera, Parma
Dobbiamo abbattere delle barriere ideologiche e farci anche contaminare, perché solo insieme possiamo cambiare discorso e solo insieme possiamo realmente capire quale sono le strade da intraprendere.
Cosa intendiamo noi come riconversione ambientale all’interno del nostro spazio? Parte sicuramente dalle piccole esperienze come il GAS, la Mercatiniera e la Bio-osteria.
Partiamo quindi dallo spazio sociale, perché siamo attivisti politici, abbiamo occupato e costruito lo spazio e lo riempiamo di contenuti, ma la nostra esigenza è anche quella di uscire fuori dallo spazio usando come filtro la casa cantoniera.
Da un anno è nata la rete ambiente parma, che vuole racchiudere o unificare una rete di lotte ed esperienze di tutto il territorio, come il movimento contro l’inceneritore o l’ultimo il comitato contro Laterlite, e tante altre piccole battaglie, che se rimangono assestanti non avranno mai una voce così grande.
Noi da quest’anno ci siamo prefissi di costruire delle linee guida che ci portano ad avere degli obbiettivi specifici per poi raggiungere degli scopi che ognuno delle realtà parteipanti si danno.
Le piccole esperienze che i nostri produttori fanno di giorno in giorno, possono per certi versi essere paragonati, anche se non hanno un fucile puntato in testa, alle esperienze zapatiste, ma purtroppo oggi qualcuno di loro ha anche un fucile puntato in testa che oggi si chiama Equitalia.
Mi viene lo sconforto se mi giro da un lato e leggo i giornali e trovo le parole di Monti che dice che la politica della sovranità alimentare o il km0 e assolutamente antieconomico, e per fortuna mi posso girare all’altro lato e vedere realtà come queste che dimostrano nei fatti che invece c’è un’alternativa e questa è l’alternativa unica e praticabile.
Un orto collettivo nello spazio urbano
Luca - GAS-tonati, Reggio Emilia
Siamo un gruppo nato da pochi mesi, costituito da persone accomunate da alcuni ragionamenti sugli stili di consumo e la qualità dei prodotti. Dopo esserci costituito come GAS abbiamo anche avuto la possibilità di costruire un orto urbano su un terreno comunale. Abbiamo fatto molto semplicemente un orto sinergico per un scopo di autosussistenza, ma la cosa molto bella che è successa e che legata al lavoro materiale e la coltivazione è nata anche una comunanza e una condivisione di alcune tematiche.
Nonostante che le persone che partecipano in questa esperienza provengono da ambiti differenti, alcuni dalla città alcuni dalla campagna, si è trovato un comune che ci fa pensare come ci sono alcune distinzioni che in realtà di fronte alla praticità e all’entrare in una progettazione che si traduce concretamente, vengono a cadere o vengono messi in secondo piano.
Un orto collettivo nello spazio urbano
Un campo di grano collettivo
Nicoletta - hOrta, Palata Pepoli (BO)
Noi siamo partiti come GAS e da tanti anni facciamo questo piccolo spostamento, piccolo ma significativo e incisivo, di decidere tutti i giorni come mangiare, cosa mangiare e a chi dare i nostri soldi.
L’idea del progetto di cui vi voglio raccontare è nata dal fatto che una nostra protutrice che ci forniva la farina integrale di grano bolero dopo tanti sforzi e tanta continuità decise di smettere di coltivare perché non ci saltava fuori da un punto di vista economico e finanziario; con il cuore sul mano ci disse se devo tirare fuori i soldi per dare la farina a voi…
L’anno successivo abbiamo pensato che poteva essere almeno sperimentabile un’idea di aiutarla da un punto di vista finanziario, quindi partecipando al rischio d’impresa, avendo come obbiettivo da coltivare un piccolo pezzo di terra che servisse per garantire la nostra autosufficienza. L’idea di vedere se si poteva pensare di sostenere una produttrice che consociavamo da tanti anni che ha deciso di smettere di produrre semplicemente per un problema di denaro, e dico semplicemente perché è solo carta.
Il tutto si è risolto da parte del gruppo, davvero in una partecipazione, oltre dal punto di vista ideologico in una compartecipazione al rischio che significava che se per un qualsiasi motivo non avessimo ottenuto il prodotto a fine campagna, il rischio era stato condiviso tra trenta famiglie. Ci siamo quindi divise le spese per coltivare questo campo di mezzo ettaro, con solo dieci euro a testa, e con questi 300 euro siamo riusciti a tirare fuori una decina di quintali di grano bolero.
Il processo è terminato in modo soddisfacente. Il problema qual’è, i seminativi hanno bisogno di rotazione. Dove hai seminato un cereale non lo poi più fare per quattro anni.
Durante questo percorso abbiamo conosciuto un nuovo modo di aggregare e contattare chi produce - la compartecipazione -dove le competenze e i mezzi le metteva la protutrice ma il gruppo metteva la sua partecipazione finanziaria e anche collaborativa e organizzativa per esempio per la distribuzione. S’incontrano dei problemi che ti riportano a dei piani completamente diversi rispetto a quelli che siamo abituati con i prodotti industriali.
Sull’onda di questa esperienza positiva, l’anno successivo abbiamo fatto un progetto ancora un pochino più ambizioso; proviamo a gestire un pezzo di terra dove riuscire a garantirci la nostra autosufficienza di farina e grani antichi con continuità. La quantità è sempre mezzo ettaro ma in realtà lavoriamo a rotazione due ettari per avere la continuità. Questo chiaramente aumenta i costi, e abbiamo aumentato il numero di famiglie. Siamo sessanta famiglie che lasciano una quota di trenta euro per far sì di avere la possibilità di partire con questa coproduzione.
Nella comparazione tra i due progetti vedo una differenza: mentre nel primo abbiamo sostenuto una produttrice, nel secondo abbiamo osato molto di più perché abbiamo tentato di essere noi stesse e noi stessi ad organizzare e a gestire la produzione di questo pezzo di terra in modo continuativo. La differenza rilevante è che, sostenere una persona o una piccola azienda agricola che ha deciso di viverla come lavoro è una cosa, scegliere di gestire con l’obbiettivo del proprio fabbisogno, senza andare oltre, senza avere bisogno di commercializzare il prodotto, ma pensare esclusivamente a quello che è il nostro bisogno, ci rende bisognose di quelle competenze di cui si è parlato prima, c’è bisogno di imparare diverse cose, non solo il contatto con la terra in senso filosofico ma pratico.
Stiamo vivendo un’epoca di trasformazione, e sicuramente siamo protagonisti di questa trasformazione. Vedo tutte le figure come protagonisti, i produttori e produttrici sono altrettanto importanti come chi decide di lavorare direttamente la terra. E soltanto dalla collaborazione e dal sostegno continuativo che può avere atto una trasformazione. Tutti giorni, tutti giorni dobbiamo continuare a scegliere.
Una società agricola in comune
Marino - cooperativa la Vigna, Oltrepò Pavese
La cooperativa la Vigna e nata nel 1992 nel Oltrepò Pavese, intorno alle problematiche legati all’immigrazione, con progetti di accoglienza e cooperazione. Abbiamo iniziato la produzione e la vendita del vino, per dimostrare a chi veniva in accoglienza che non vivevamo sulle spalle loro andando a chiedere finanziamenti. Quindi partendo da zero abbiamo iniziato a produrre ed e venuto logico che fin dall’inizio abbiamo venduto nelle botteghe del commercio equo e solidale.
Verso il 2002/2002 abbiamo deciso di reimpiantare quasi quattro ettari e mezzo degli otto e mezzi di ettari di cui e composto il vigneto e abbiamo preso in affitto altra terra dei vicini che non lo usavano, e in quel momento nelle botteghe del equo e solidale è venuto il vino di Cile, e abbiamo avuto un calo delle vendite del 40 %.
Arrivati a quattro anni fa abbiamo ripreso a vendere pian pianino perché il vino di Cile non andava bene. Ma in quel momento arriva Libera… la CTM e il Commercio Alternativo che sono i due centrali grossi del commercio equo e solidale hanno fatto degli accordi con Libera. 85% degli prodotti nelle botteghe equo e solidali devono essere acquistate da CTM, Libera è dentro questo 85% e noi siamo fuori e quindi non vendiamo più in alcune botteghe, che all’inizio noi abbiamo fatto crescere. Abbiamo scritto una lettera alle botteghe, ma non è stata raccolta.
In questo momento ci stiamo trasformando in una società agricola indivisa; trasformare la proprietà che in questo momento è fatta da due persone in una proprietà di cento persone, facendo partecipare tutte le persone che entrano a tutte le scelte. Mettendoci da una parte in gioco noi produttori, e dall’altra parte si chiede ai GAS e le persone che stiamo contattando di entrare e discutere su questi aspetti.
L’idea della società agricola che stiamo costituendo quindi parte sia dall’esigenza da parte nostra di trovare fondi per rimetterci in pari e avere un tranquillità economica, ma dall’altra parte il coinvolgimento da delle persone sulle attività della cooperativa.
Possiamo fare un esempio: noi di solito facciamo i Riesling fermo, ma se quattro GAS che fanno parte della società agricola chiedono di fare 2000 bottiglie di Riesling frizzante, noi lo facciamo però loro si comprano le 2000 bottiglie. Quindi c’è da una parte una sicurezza della vendita, e una sicurezza della qualità dall’altra.
Agricoltura contadina e agricoltura industriale
Alessandro - CSA Fabri, Fabriano
Se si vuole continuare ad utilizzare alcuni termini i cui significati oggi possono essere molteplici è sicuramente necessario chiarirne il significato. Per quanto riguarda la parola contadino è necessario chiarire alcuni aspetti che riguardano il modo contadino di fare agricoltura:
1) Coproduzione: A differenza dell’agricoltura industriale in cui si enfatizza la produzione in termini di produttività (quintali/ettaro o quintali/unità lavorative) o redditività (valore aggiunto/ ettaro o valore aggiunto/ unità lavorative) l’agricoltura contadina è interessata alla coproduzione, come risultato dell’ interazione sinergica tra uomo e natura. La coproduzione perciò è data dalle rese (produzione) ma anche dalla riproduzione della base di risorse necessaria per il ciclo successivo (che al crescere del grado di industrializzazione tende ad essere maggiormente mobilitata sul mercato) e alla creazione di ulteriori prodotti (fertilità del suolo, difesa della biodiversità e delle falde, tecniche di potatura ed altri agricultural knowledge, etc..). In questo caso possiamo affermare che la sostenibilità nel modo contadino di fare agricoltura, non è dovuta al fatto che i contadini in quanto tali siano ambientalisti, piuttosto è dovuta al fatto che i contadini molto spesso lavorano in favore del mantenimento delle risorse ambientali perché da queste dipende la propria sopravvivenza (si pensi all’importanza della cosiddetta ecologia dei poveri descritta da Martinez-Alier nell’economia dei conflitti ecologico distributivi).
2) Lotta per l’autonomia: Ci può sicuramente aiutare la definizione data dal sociologo rurale olandese Ploeg al concetto di condizione contadina come “una continua lotta per l’autonomia ed il progresso in un contesto caratterizzato da modelli multipli di dipendenza e da conseguenti processi di sfruttamento e marginalizzazione”. I modelli di dipendenza sono quelli imposti dai mercati globali per i prodotti agricoli ed alimentari in entrata (dipendenza da sementi selezionate, carburanti, fertilizzanti, dai diritti di accesso alla terra, dal credito, etc..) ed in uscita (difficoltà ad entrare nei mercati per i piccoli produttori, prezzi dei prodotti agricoli determinati in base a meccanismi finanziari e più bassi dei costi di produzione, etc..), e dagli schemi normativi (si pensi solo all’immenso volume di norme comunitarie “igenico-sanitarie” sulla trasformazione e commercializzazione dei prodotti).
La lotta per l’autonomia è quindi un carattere centrale dell’ agricoltura contadina e si manifesta tramite mobilitazioni, occupazioni di terre, blocchi stradali ma anche tramite un’illegalità quotidiana rispetto schemi normativi che riducono ogni spazio di autonomia, aumentano le dipendenze.
Possiamo quindi affermare che i contadini sono coloro che praticano un’attività agricola in cui la coproduzione uomo-natura ha un ruolo centrale e plasma sia il sociale che l’ambiente naturale. Un’attività agricola incentrata su una base di risorse relativamente autonoma e autogestitita che entra nel ciclo produttivo come valore d’uso, che pratica la sostenibilità perché solo attraverso il mantenimento dell’ambiente (mantenimento della fertilità, della qualità delle acque, dell’entomofauna utile, etc..) si può garantire la continuazione dell’attività stessa. Allo stesso tempo, per affrontare un’ambiente ostile (sia quello naturale, che quello delle norme e dei mercati) forme di cooperazione e di reciprocità si rendono spesso necessarie e a volte producono livelli aggregativi tali da produrre notevoli successi dal punto di vista della conquista di autonomia (si pensi al caso delle occupazioni del MST in Brasile).
I contadini sono piccoli proprietari terrieri, preferiscono in genere riprodurre autonomamente le risorse (se è possibile) piuttosto che acquistarle sul mercato, utilizzano lavoro proprio, lavoro famigliare e rapporti di scambio e reciprocità piuttosto che lavoratori esterni, producono biologico o con metodi più o meno naturali ma hanno un immensa difficoltà (e a volte impossibilità) a regolamentare la loro situazione ed avere una certificazione comunitaria. Ma contadini sono anche coloro che vorrebbero dedicare del tempo alla terra ma non possono (si pensi ancora al caso dei senza terra o di chi vivendo in città non può accedervi).
Allo stesso tempo la sinergia tra uomo e natura è minimizzata, la na tura sostituita da input artificiali; il cibo artificializzato ed il suo processo di produzione scomposto in tante piccole parti come se si trattasse di componenti meccaniche. Come vengono spazzate via le connessioni tra prodotto e luogo di produzione anche le connessioni tra produzione, trasformazione e consumo vengono rotte.
La riproduzione delle risorse base è spesso interamente dipendente dal mercato (elevati livelli di input esterni artificiali) e le risorse entrano nel ciclo produttivo come commodities; il lavoro è per la maggior parte salariato (e purtroppo è spesso senza neanche le minime forme di tutela).
Infine il controllo su ogni fase della produzione è sempre più centralizzato al fine di garantire al capitale il maggior valore aggiunto da prosciugare.
Dall’altro lato della barricata c’è un modello di agricoltura sempre più industriale, caratterizzato da una riduzione della connessioni dalla natura e dallo spostamento delle produzioni dagli ecosistemi di origine, dallo scollegamento delle produzioni dai limiti spazio-temporali (commodities, prodotti indifferenziati dal luogo di produzione, creazione di “non-luoghi”).
Una osteria etica ed eretica
Biagio - CSO Pedro, Padova
Vogliamo condividere un nuovo progetto che ha avuto inizio proprio ieri all’interno del centro sociale Pedro, l’Osteria sociale ErEtica. L’abbiamo avviato perché le questioni legati alla terra debbano tornare centrali all’interno dei spazi sociali, le associazioni e comitati. Questo non vuole dire che non lo siano state; ne sono ad esempio le battaglie referendarie per l’acqua bene comune, ne sono ad esempio le battaglie contro il Dal Molin in Vicenza, e le battaglie che abbiamo fatto tutte e tutti insieme contro la TAV in Val Susa. D’altronde la terra ha sempre giocato un ruolo centrale nella possibilità del capitalismo e il modello neoliberista di assoggettare e sfruttare i territori e le persone.
Ma crediamo anche in questo momento che ragionare sulla terra e lavorare su questo terreno rappresenti anche una possibile via di uscita dalla crisi. Una via di uscita di una crisi economica se un ritorno alla terra significa rilocalizzare i processi di produzione e di scambio e commercio dei beni che vengono prodotti, una via di uscita di una crisi ambientale, se un ritorno alla terra vuole dire produrre e scambiare i merci all’interno di un paradigma di sostenibilità, quindi produzioni agricoli e allevamenti con un basso impatto sul territorio e l’ambiente, ridurre le distanza dei trasporti attraverso il km0 e la filiera corta.
Da queste riflessioni nasce il progetto dell’Osteria ErEtica, come piccolo tentativo di lavoro su queste tematiche sul territorio. Per quanto sia giovane, l’esperienza ci ha dato delle ottime sorprese: ci siamo resi conto di quante realtà che si trovano al di fuori del contesto urbano, che in questo contesto di crisi tentano di uscire dai meccanismi che gli schiacciano e gli impoveriscono. Realtà con cui dobbiamo necessariamente interagire e intrecciare rapporti, proprio per sottrarle dal mainstream e dalla governance, riuscire di strappare questi segmenti produttivi dal mercato per tentare di costruire con loro nelle pratiche quotidiane un modello di sviluppo altro e diverso di quello che siamo stati costretti a subire.
Costruire
tessuti resistenti
tra mondo urbano
e mondo rurale
Da pratiche quotidiane a pratiche politiche
Si è discusso di come riconoscere le nostre pratiche quotidiane come pratiche politiche. Come esperienze che sostengono la dignità dei lavoratori agricoli, la salvaguardia del ambiente e la salute di tutte e tutti, e quindi si pongono in un rapporto conflittuale con il capitale, che nel nodo della terra si esprime in forme molteplici; nell’accaparramento del terreno da parte della grande industria alimentare, lo sfruttamento dei lavoratori migranti nelle raccolte stagionali, la cementificazione del territorio da parte della rendita immobiliare, solo per fare alcuni esempi.
Abbiamo ripreso il concetto di radicalità come qualcosa che non si sofferma alla superficie, ma che scava fino alle radici; la consapevolezza che non basta un cambiamento soltanto del proprio stile di vita ma, per cambiare l’esistente, è necessaria una trasformazione più profonda e capillare.
Da una parte si è ribadito l’importanza di non essere recuperati, usando come esempio altre esperienze come Slowfood che sono diventati mercati di nicchia facilmente incorporate nel economia di mercato, ma dall’altra parte si è sottolineato l’importanza di non essere autoreferenziali e di non cercare la marginalità, ma viceversa stare dentro i territori con tutte le loro contradizioni.
Tra illegalità e legalità
E’ emersa la necessità di approfondire il rapporto tra illegalità e legalità nelle nostre esperienze; sia rispetto alla produzione, sia rispetto ai nostri ambiti di mercato e ristorazione autogestito. Come dato obbiettivo tanti produttori si trovano ad operare nell’illegalità, come anche i nostri mercati e le nostre osterie si svolgono al di fuori della legge. Alcuni rivendicano questo dato come un valore politico mentre altri lo vivono come una condizione provvisoria.
Si è interpretato la legge come uno spazio di contradizioni, come un campo di forza: l’applicazione di una legge può renderci meno liberi, mentre l’applicazione di un’altra legge può renderci più liberi.
Si è parlato di come costruire vincoli sociali, con un valore politico, sociale e culturale. Riprendere il vincolo come concetto che raccoglie due significati complementari: sia inteso come qualcosa che pone un limite, sia come qualcosa che unisce; da una parte come una tutela e dall’altra parte come un legame.
Nel concreto la costruzione di vincoli tra produttori e GAS o mercati si può tradurre nella nell’autocertificazione e la vendita diretta, e il vincolo tra osterie e chi si siede a tavola nella tracciabilità dei prodotti e la trasparenza su come il costo del pasto viene calcolato.
Lavoro, autogestione e reddito
Abbiamo discusso se e come le nostre esperienze autogestite possono anche creare forme di reddito.
Invece di essere consegnati ad una lavoro precario in un call center, è possibile dare la possibilità di svolgere un lavoro dignitoso che contemporaneamente coincide con le nostre progettualità?
Abbiamo parlato del rischio di riprodurre le stesse logiche che cerchiamo oltrepassare, come la monetizzazione, ma come sia importante di non essere ideologici, e valutare ogni volta secondo il contesto e le condizioni quali siano le scelte migliori, se per esempio attivare un discorso di autoreddito o no.
Anche se i nostri orizzonti sono oltre il lavoro stipendiato, non possiamo adattare la realtà alle nostre idee, ma possiamo sviluppare idee che possono cambiare la realtà.
Oggi all’interno del contesto della crisi, che trasforma le nostre condizioni di vita e lavoro in modo materiale, sempre più di noi rimangono disoccupati o precari, ma anche chi ha un posto di lavoro fisso vive condizioni di lavoro con richieste di prestazioni più alte, in un contesto di tagli e ristrutturazioni. Diventa quindi importante di valutare l’ipotesi di esperienze che possono creare reddito considerando anche il momento storico che stiamo attraversando.
Quando si ha un lavoro che garantisce un reddito è anche più semplice dedicarsi alle attività collettive e autogestite, quando si è disoccupati e con fatica si cerca un lavoro per sostenere le spese della vita, è facile che il tempo e le energie vengono a meno.
Un progetto editoriale sul nodo della terra
Per dare continuità allo scambio tra i diversi contesti locali e creare uno strumento di lettura che ci permette di interpretare in modo più articolato le nostre esperienze, si è discusso della possibilità di creare un progetto editoriale.
Questo strumento potrebbe sostenere la ricerca di un lessico rinnovato, e un’identificabilità delle nostre idee e pratiche che ci consente di avere un confronto più approfondito.
L’idea è di creare una redazione composta da persone attivi in diversi territori, che producono un foglio, con una scadenza di circa ogni 2/3 mesi, in formato PDF che tutti possono condividere tramite i propri canali multimediali, o stampare per tenere negli spazi sociali e distribuire nelle reti cittadine.
Si è sottolineato che non si vuole sovrapporre ad altre esperienze simili, ma cercare un confronto sugli aspetti in comune e sugli aspetti divergenti.
Alcune persone che portano avanti progetti con un autoreddito hanno segnalato alcuni aspetti critici da approfondire, come la mancanza di tutele nel caso di infortuni o malattie.
Perchè lavorare sulle idee
Andrea Bonini - Laboratorio t/Terra
Innanzi tutto vorrei soffermarmi sulle motivazioni che ci hanno portato a individuare nell’elaborazione di concetti (quindi di nuovo lessico) una priorità in relazione al nodo t/Terra. Siamo partiti dalla convinzione - maturata soprattutto attraverso il percorso di t/Terra e libertà/Critical wine – che il nodo t/Terra sia destinato a divenire il nucleo attorno cui nel prossimo futuro si svilupperanno soggettività politiche forti.
Questa affermazione, che a molti di noi può apparire quasi banale riferita alle lotte ambientali, diventa in realtà estremamente problematica se trasferita in ambito agricolo. Nella storia recente l’agricoltura europea ha espresso approcci consapevolmente “alternativi” sin dai bagliori della cosiddetta “rivoluzione verde” (il processo che, a partire dagli anni ’60, portò al rapido trionfo del sistema di produzione, distribuzione e consumo fondato sull’agroindustria e la grande distribuzione organizzata). Si trattava di esperienze marginali, legate spesso ad un rifiuto epidermico di quei modelli di dipendenza citati da Alessandro del CSA Fabri: aziende agricole e consumatori che, avvertendo prima di altri l’infelicità delle produzioni e delle relazioni generate dal suddetto sistema, hanno autonomamente costruito propri spazi di sopravvivenza. Alcune di queste realtà, sorte negli anni ’70-‘80, le conosciamo bene e sono state nostre compagne di viaggio in t/Terra e libertà/Critical wine, penso alla Cooperativa Valli Unite, ad Aurora, a La Viranda, a Urupia, ma anche a pochi, storici ristoratori “refrattari” e ad alcune piccole cooperative di consumo.
Credo che trent’anni fa ciascuno di questi soggetti, politicamente molto preparati, si percepisse più come parte periferica di una soggettività centrata altrove che come germe di un movimento di là da venire. Eppure più il sistema manifestava la sua natura imperialista, predatoria e distruttiva, più la sensibilità al nodo t/Terra, la ricerca di pratiche alternative per far fronte a bisogni tanto elementari quanto intimi ed umani come mangiare e bere si è diffusa, talvolta formalizzandosi in organismi, associazioni, aziende.
Dagli anni ’90 ad oggi innumerevoli esperienze locali, coordinamenti, reti nazionali e internazionali hanno sviluppato progetti concreti e proposto letture importanti di uno o più segmenti del nodo t/Terra ma.. perché non è nato nulla che si sia posto nei termini di una soggettività politica? Non solo, perchè tutto ciò che è contadino, “neo-metropolitano”, coproduttivo e generativo deve ancora oggi mendicare la propria legittimità, sottostare in parte ai modelli di controllo e dipendenza (pensiamo soltanto agli adempimenti burocratici) e - nonostante l’enorme mole di studi antropologici, sociologici, economici - non sa ancora porsi come alternativa possibile? Probabilmente perché divenire una soggettività politica presuppone la capacità e la volontà di elaborare una visione politica e, nel caso della soggettività politica al centro delle nostre discussioni, una visione politica che riconosca, nella crisi di un sistema violento e disumano, la propria incompatibilità con il potere che lo determina. Divenire una soggettività politica molteplice e plurale, quindi, non significa altro che riconoscersi come portatori di una nuova forma di vita e, contemporanemente, precisare in senso conflittuale - anche nella concretezza delle pratiche - i rapporti con il potere e i suoi dispositivi.
Perché dovrebbe essere questo il momento giusto per imbarcarsi in una nuova dimensione di conflitto? Quali contingenze storiche ne aprirebbero la possibilità?
Mi vengono in mente tre fattori:
1. la pervasività del capitale nelle esistenze individuali e nelle forme della socialità è altissima e crescerà con l’erosione di diritti determinata dalle politiche di rigore imposte attraverso la crisi;
2. la diffusione al nostro interno, e in particolar modo tra chi tra di noi si occupa di progetti legati all’agricoltura e al territorio, di strumenti concettuali messi a punto da soggetti formalmente estranei al nodo t/Terra in grado di evidenziare in modo efficace come il capitale oggi sia prodotto, concentrato e difeso;
3. l’individuazione condivisa, per quanto vaga e problematica, della contadinità come occasione in cui l’utopia può trovare una sua concretezza in forme di produzione e di relazione felici.
Aprire una biosteria in uno spazio autogestito, creare un gruppo d’acquisto solidale, progettare un orto per l’autoproduzione di ortaggi sono senz’altro ottimi modi per ribadire il proprio diritto ad un’alimentazione umana, alla conoscenza e al piacere del sapore, ma mi sembra chiaro che le realtà intervenute a Terre Resistenti non vogliano semplicemente riprodurre al loro interno “nuovi servizi”.
Assaggiare un vino, concepire un nuovo piatto, occuparsi degli acquisti e dei rapporti con i produttori sono pratiche che, credo, in un centro sociale, hanno ancora più senso se diventano altrettanti momenti di riconoscimento del carattere biopolitico del conflitto, parte dello stesso discorso portato avanti con una manifestazione contro la grande opera, con il supporto alle lotte dei migranti eccetera.
A differenza di dieci anni fa, grazie a una nuova sensibilità diffusa, non è più strettamente necessario organizzare una fiera, un evento di grandi dimensioni per veicolare idee e proposte (come allora scelse giustamente di fare tlcw): i percorsi e i progetti locali si sono moltiplicati e sono cresciuti tanto da rendere impensabile e sostanzialmente inutile qualunque tentativo di creare l’ennesima “rete forte”, per quanto politicamente connotata: anche con Terre Resistenti le realtà territoriali hanno dimostrato di sapersi connettere autonomamente quando registrino un effettivo interesse a farlo.
Approfondire e diffondere consapevolezza politica relativamente al nodo t/Terra credo possa essere uno dei nostri contributi all’individuazione e definizione della soggettività molteplice e alle sue conseguenti conflittualità, perché proprio questo è ciò di cui spesso si avverte la mancanza in percorsi altrimenti assolutamente validi e interessanti. Una piccola pubblicazione da scaricare gratuitamente e magari stampare (possiamo pensare a 4 facciate formato A3) per distribuirla nella propria realtà e a qualche manifestazione o evento nazionale, potrebbe essere lo strumento giusto , in questo momento, per chiarirci e chiarire le idee, rivitalizzare la circolazione delle esperienze e dei saperi, dare spazio a nuovi progetti.
Come creare una redazione, come, poi, riuscire a farla lavorare in modo coerente e approfondito sono domande aperte cui siamo sicuramente in grado di rispondere, date le competenze diffuse di cui – da Empoli, Monopoli, Jesi e Reggio Emilia - sappiamo di disporre.
1. Mercati autogestiti e gruppi di acquisto solidale
Ci siamo confrontati tra persone che portano avanti gruppi di acquisto solidali e mercati autogestiti, tra chi lo fa da tanto tempo, chi ha pena cominciato e chi vorrebbe avviare una nuova esperienza.
Abbiamo parlato di quanto sia importante creare gruppi attivi, responsabili, con persone che partecipano attivamente all’autogestione, scambiando le nostre esperienze di GAS e mercati autogestiti per vedere i loro rispettivi vantaggi e svantaggi.
I GAS consentono di creare un gruppo forte, con un numero di persone contenuto, dove è più semplice condividere le scelte tra tutte e tutti. Dall’altra parte rischiano di essere esperienze ristrette.
I Mercati possono aprire, possono essere luoghi per diffondere le nostre idee e pratiche. Permettono a tutti i partecipanti di incontrare i produttori con continuità. Dall’altra parte rischiano di diventare luoghi attraversati ma non attivamente agiti e partecipati. Bisogna quindi trovare nuove modalità di partecipazione e gestione diretta.
Non basta solo sostenere i piccoli produttori perché sono piccoli, anche loro possono produrre inquinamento e sfruttamento se pur in una scala minore. E’ importante stabilire principi condivisi, e collocare le nostre pratiche all’interno di un progetto politico. In questo possiamo sostenerci a vicenda, scambiando i valori che regolano i nostri GAS e mercati, per una contaminazione reciproca.
Un altro modo per diventare risorsa uno per l’altro tra territori, può essere quello di mettere a disposizione persone con competenze, come per esempio un agronomo che aiuta nelle autocertificazioni.
Si è anche parlato dell’importanza di coinvolgere in modo più attivo i produttori nei nostri percorsi. Abbiamo discusso di come le nostre esperienze possono essere luoghi anche formativi per i produttori, che possono avere la possibilità di cambiare le proprie modalità produttive, in corrispondenza alle richieste dei gruppi di acquisto e dei mercati autogestiti.
2. Bio-osterie sociali
Le osterie sociali presenti durante le due giornate si sono confrontate provando a tracciare una linea comune e condivisa rispetto ai progetti che stanno portando avanti. In particolare sono stati affrontati alcuni temi:
• Principi condivisi: ci si è confrontati su quelli che sono i principi alla base dei progetti portati avanti dalle diverse realtà ovvero: utilizzo di materie prime a km 0 e biologiche preferibilmente provenienti dai produttori locali che settimanalmente partecipano ai mercati autogestiti e ai gruppi d’acquisto solidale, favorendo un modello di consumo consapevole e sostenibile nel rispetto della vita e dell’ambiente.
• Come fare Rete: si è condivisa l’importanza di fare rete tra le realtà presenti e di trovare una modalità per favorire comunicazioni e scambio. E’ emersa l’esigenza e la voglia di ripetere periodicamente dei momenti di “contaminazione”, come quelli di queste due giornate, precedute dall’incontro di Giugno a Empoli. Intanto sarà possibile comunicare anche attraverso la mailing list di Terre Resistenti specificando l’argomento (osterie sociali).
• Come coinvolgere altre realtà: si è parlato di provare a coinvolgere altri spazi sociali raccontando le nostre esperienze e offrendoci da supporto e da riferimento per chi volesse provare a intraprendere percorsi di questo tipo.
• Autoreddito: ci si è confrontati su come le osterie sociali possano produrre autoreddito. Si è condivisa la necessità di costruire delle forme di reddito alternative allo sfruttamento e affini alla nostra progettualità. Le osterie di Parma e Empoli portano avanti questo percorso ormai da anni.